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lunedì 18 giugno 2018

Lo specchio

Gli alberi bussavano alla finestra della stanza con le mani scheletriche, atrofizzate dal gelo tagliente di una notte da dimenticare. La nebbia fitta stritolava l'austera casa con presa mortale, mentre creature notturne replicavano il proprio verso all'infinito, sempre più forte. Civette e lupi con i loro lamenti sembravano voler entrare nelle orecchie fino a farle sanguinare.
Non avevo il coraggio di uscire, ero pietrificata nel letto. Fissavo le mie mani come se non mi appartenessero, attanagliata dal terrore.
Lo specchio era ubicato di fronte alla mia prigione di cuscini, non avevo mai il coraggio di poggiare i piedi a terra per riflettermi.
Nemmeno le urla dei lupi, le nenie delle civette, i bisbigli che mescolavano i due suoni come un'antica cantilena, potevano spaventarmi quanto la mia figura.
La mia mano con quella forma innaturale. Nocche fatte di polvere, pronte a sgretolarsi al primo respiro sghembo, le enormi vene verdi evidenziate da una carta di pelle, attaccata malamente a muscoli ed ossa come un francobollo secco. Il polso piccolo, fragile, inconsistente come la realtà e le sue immense illusioni, fuoriusciva da una manica logora e vermiglia come un fiore appassito.
Ogni notte fissavo quelle mani e non riuscivo a correre oltre con lo sguardo.
Ogni notte contemplavo la carta da parati del soffitto fino a perdermi nelle muffe, nelle incrostazioni, nelle imperfezioni. Poi un'altra notte, poi ancora notte.
Era sempre notte. 
Ogni notte l'angosciante rimprovero delle creature del buio si faceva più forte, poi restava solo quel sibilo crudele, un mantra spietato.
Ogni notte tiravo su le coperte e facevo finta di non ascoltare, mentre il cuore pompava più forte e il ronzio nelle orecchie diveniva sovrano, offrendo solo dolore.
La stanza si riempiva di ombre dimenticate, rigettate dagli angeli nel luogo in cui meritavano di stare. Le ombre piangevano. Le ombre bisbigliavano sempre la stessa funebre nenia. Allungavano le dita nere nell'oscurità sempre nella solita direzione.
«Guarda!» esclamavano lugubri e roche, sempre la stessa parola.
Una forza sovrannaturale mi spingeva in avanti, costringendomi ad alzare la testa e il busto, fino a mettermi in piedi. 
«Vi prego lasciatemi in pace!» supplicai serrata dalla morsa della disperazione. «Vi prego, non ho fatto niente di male!» ma loro implacabili mi strattonarono in avanti, lacerandomi le vesti che ricaddero a brandelli su un pavimento ombroso e logoro.
Barcollai ad occhi chiusi, il cuore in fiamme e le orecchie sanguinanti. Toccai lo specchio sommersa dalle lacrime.
«Guarda!» urlarono in coro implacabili.
«Basta, vi prego!» supplicai ancora tremando, i miei avi fatti di buio.
Nessuno rispose più. Il silenzio, freddo e inflessibile, mi avvolse come una coperta e cominciai a battere i denti dal terrore, sempre più forte, finché il battito non divenne un implacabile tamburo.
Appoggiai la mano scheletrica al bordo dello specchio e aprii gli occhi. Scrutai la forma del mio viso a bocca aperta, rattrappendo dalla vergogna e non ebbi il coraggio di guardare oltre.
Presi in braccio il massiccio specchio e lo voltai al contrario: rifletté l'adorabile immagine di una ragazzina. Ogni notte torno a dormire nella speranza che non lo voltino di nuovo.
In fondo ho solo dodici anni. 

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