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mercoledì 28 gennaio 2015

Recensione- Le affinità elettive, di Johann Wolfgang von Goethe


Avviluppata dal fascino de "I dolori del giovane Werther", mi sono lanciata di testa a leggere questo dramma dal nome altisonante. Ad essere sincera, sono abbastanza convinta di aver caricato il romanzo in questione di troppe aspettative, dovute allo struggimento della precedente lettura. 

Ma andiamo per ordine: di cosa parla?
Eduardo -ricco barone nel fiore della virilità- e Carlotta riescono, dopo precedenti matrimoni più di convenienza che di sentimenti, a sposarsi e vivere insieme in un castello, curando la proprietà e l'enorme parco che la circonda. Hanno programmato di svolgere una stretta vita di coppia, limitandosi ai loro affari ma senza far entrare terzi nella loro esistenza, quando lui -che fa sempre danni in tutta la storia- aggira abilmente questo patto. Le propone di far stare da loro per un certo periodo, un amico: il  "capitano" ed è talmente insistente nella richiesta, che lei cede, ma gli fa sottilmente notare che, per rispettare il patto è stata costretta a far restare in collegio -dove per altro la creatura non brilla di luce propria, ma nemmeno riflessa- sua nipote Ottilia. "Nipotina" largamente  maltrattata dalla figlia di Carlotta, Luciana, che invece ci manca poco che conquisti il collegio. Ma Luciana in parole povere non ha una parte importante: è solo il motore per cui questa povera Ottilia viene accolta in casa. Eduardo pur di ottenere l'amico con sé, avrebbe acconsentito anche ad allevare in giardino una foca, quindi non si oppone alla più che valida lamentela della moglie... ma andiamo avanti. Arrivano il "capitano" -che viene chiamato sempre così. Non gli è dato almeno di avere un nome? Ok, non fosilizziamoci- e la nipote. E qui giunge il bello, che può essere tranquillamente riassunto in poche righe del libro.
<<Siccome sei stata tu a stuzzicarci,>> ribatté Eduardo, <<ora non te la cavi tanto facilmente. I casi più complicati sono proprio i più interessanti. Solo studiando questi, si conoscono i gradi di affinità, le relazioni più prossime e vigorose, e le più lontane e deboli.  Le affinità cominciano ad essere interessanti quando producono separazioni.>>
Ma ancor più nello specifico, questo discorso viene ribadito fino alla morte durante una conversazione. Quindi, che una relazione può essere  superata da un'attrazione più forte, è un concetto largamente assodato e assimilato. Se non ne siete certi, ecco ancora qui che ritorna:
<<Allora,>> disse il capitano, <<torniamo a quello che già prima abbiamo menzionato e discusso. Per esempio, ciò che chiamiamo calcare, è una terra calcarea, più o meno pura, intimamente combinata con un acido leggero, che conosciamo solo allo stato gassoso. Se immergiamo un pezzo di calcare in acido solforico diluito, questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione, e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola affinità, perché sembra proprio che una relazione venga anteposta ad un'altra, che si faccia una scelta.>>
Questo è un approfondimento interessante, che colpisce e già s'insidia il dubbio nella mente: l'idea che possa avvenire uno scambio simile, ma con le persone. Benissimo; ok, meraviglioso: quando si comincia?
Ed ecco qui la brutta notizia: prima che avvenga qualcosa, preparatevi ad affrontare minuziose ed estenuanti descrizioni del giardino... di come spostano questo o l'altro sentiero, delle milletrecento tipologie di fiori che vengono piantati -come se servisse per forza una laurea in botanica per leggere una vicenda in cui due rispettive passioni s'incrociano-, della struttura spostata un po' più in alto o un po' più in basso al fine di vedere il paesaggio in modo ottimale; del tragitto e la sua biforcazione, di cui un braccio devia nel cimitero; del laghetto; di come vengono risistemate le lapidi -che poi mi dovrebbero spiegare come a Carlotta venga in mente di spostarle, secondo quale logica- e la chiesa... vi sta passando la voglia di leggere la recensione, eh?! Ecco, ora avete pressappoco una pallida idea di cosa potreste trovare. Bastava spiegare che ci sono un parco, un lago con una barca e una chiesa con cimitero. Questo era quanto utile alla narrazione.
Che poi facendo questi lavori, il "capitano" leghi con Carlotta conquistando la sua fiducia ed Eduardo si faccia sempre più vicino a Ottilia, ok avviene, ma senza un pathos particolare. Nessuno inizialmente si strugge; anzi c'è lo scambio di coppie e sembra andar bene a tutti. Ognuno prende la faccenda come se fosse naturale e scontata.
Il problema è quando si tratta di legalizzare le unioni, metterle su carta. Allora escono fuori miliardi di dubbi, soprattutto di Carlotta.
Eppure ho molte lance da spezzare a suo favore. Innanzitutto è colei che cerca di tenere in piedi il suo matrimonio -che in teoria è ciò che definirei "normalità": questa sconosciuta- e non dà di matto come Eduardo, che parte completamente. Anche il "capitano" si dimostra molto bilanciato, rispettoso e razionale... è forse per questo che gli è dato di sputar fuori tre frasi in tutto il libro. Troppo sensato.
Ma veniamo agli altri due. A me non disturba affatto questa vena fortemente passionale di Eduardo, che straripa e non riesce a reprimere in alcun modo.

Nei pensieri e nelle azioni di Eduardo non v'è ormai misura alcuna. La certezza d'amare e d'essere amato lo spinge verso l'infinito. Come vede diverse le stanze, e tutti i luoghi intorno! In casa sua non si ritrova nemmeno più, la presenza d'Ottilia offusca ogni altra, è come sprofondato in lei, non è capace di riflettere, la coscienza è muta; tutto ciò che stava sotto  controllo nel suo carattere, prorompe, il suo essere dilaga totalmente incontro a Ottilia.

Va bene che prima di agire non riflette una e dico una volta, ma io lo biasimo per un'altra questione.
Innamorati di Luciana; innamorati della prima cameriera che incroci uscendo dalla tua stanza, del primo cane randagio in cui t'imbatti per strada. Fai proprio il cavolo che ti pare...
Ma perché, di tante donne normali, devi restare colpito a morte da un soprammobile umano? Ottilia è stupefacente ad occhio e croce come un comodino. Ed è già un gran complimento. Persino la direttrice del collegio dove stava in precedenza, va dicendo che è tarda... e il suo insegnante la difende solo perché è una bella ragazza. Ma salvo quello, è emozionante come la borsa dell'acqua calda della nonna. Per comprendere un concetto glielo devi spiegare quindici volte e approfondire, non afferra al volo nulla. Sulle prime è inutile e invisibile. Poi c'è quel gesto stranissimo che fa quando non vuole fare una cosa che le viene chiesta: giunge le mani, fa l'inchino, guarda in alto e poi gli occhi di chi gli pone la domanda -guarda caso, questa stramberia funziona pure-.... ha un senso?
Da cosa diamine è stato colpito questo uomo, non lo so.  Forse, a scapito della poesia, dal fatto che lei sia molto giovane. E a quanto pare un bel vedere. Carlotta invece mostra un'infinita pazienza, sensibilità e forza: sopporta situazioni disumane con una semplicità disarmante...e altrettanto disarmante è il fatto che cerchi di riparare il matrimonio con suo marito, nonostante sia attratta dall'altro; peggio ancora che perdoni e protegga a cuore aperto Ottilia, nonostante tutto ciò che riesce a combinare aiutata dalla sua ottusità-.
Charlotta è una donna da stimare... ma da dove tiri fuori tutta quella pazienza, devo ancora capirlo.
La narrazione è percorsa da personaggi che non servono. Troppi. Si susseguono persone più inutili di Ottilia, che addirittura cambiano poco o niente, fanno comparsa. Giunge un architetto; siccome a modo suo è un tipo artistico, interessante, ovviamente Goethe lo manda via appena  terminati i lavori. Come anche Luciana: non mi sta simpatica, ma alla fine è quasi comprensibile la sua voglia di commettere atti di bullismo verso Ottilia. È come sparare sulla Croce Rossa.
Ciò che salta subito all'occhio, è che sembra che i personaggi si caratterizzino per contrasti -Carlotta/Eduardo, Ottilia/Luciana e così via- più che per un loro modo di essere ben preciso. Non ci sono mezze misure: c'è chi esagera in qualsiasi cosa e che si trattiene sempre.
Dal punto di vista dello stile, è incredibilmente prolisso in termini di dettagli e descrizioni -di paesaggi, fiori e co.-, ma comprende anche concetti profondi, analisi della psicologia umana e della società.
Però avrei francamente preferito che fossero inquadrate in un contesto ben preciso: un discorso. Invece sono frasi bellissime che però provengono dal diario di Ottilia -l'unica cosa utile che ha fatto da quando esiste-, sentite da lei non so dove e appuntate lì a casaccio senza preamboli né approfondimenti. Sono sconnesse; il che le rende molto simili agli aforismi della Perugina. Ciò mi fa pensare che l'autore abbia voluto buttar giù sue riflessioni personali, senza curarsi di dargli un'inquadratura esatta. Come se le avesse avute in testa, insieme a un disperato bisogno di gettarle nel libro alla rinfusa. Per forza.

Le grandi passioni sono malattie senza speranza.Ciò che potrebbe guarirle, è proprio ciò che le rende pericolose. 

La passione confessandola s'esalta e s'attenua. In nessun' altra cosa sarebbe forse più da desiderare la via di mezzo, che nel confidarsi e nel tacere con coloro che amiamo.

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Si può imporre tutto alla società, salvo ciò che ha una conseguenza.
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Dipendere perché lo si vuole, è la condizione più bella: e sarebbe impossibile senz'amore!

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Non c'è maggior consolazione per la mediocrità, del fatto che il genio non sia immortale.

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I folli e le persone intelligenti ugualmente sono innocui. I mezzi matti e i mezzi savi, questi sono i più pericolosi.

Non manca, quindi, di pensieri originali e ben concepiti, di approfondimenti emotivi... però a volte son generici, a volte per sentito dire. Ci sono meno affondi specifici nelle mentalità dei personaggi di come ci si potrebbe aspettare e troppi nell'illustrare le minuzie del giardino, o riferiti all'umanità a grandi linee.
Nonostante le emozioni contrastanti che ho provato nella lettura, è una storia che a tratti sa far appassionare e parlare di sé. Forse sono rimasta troppo attaccata a Werther per apprezzare fino in fondo -quell'opera mi ha trapassata da parte a parte come una freccia; forse non posso pretendere lo stesso effetto-, ma la classe non manca.
Li univa reciprocamente, un fascino indescrivibile, quasi magico. Abitavano sotto il medesimo tetto; ma persino senza che  pensassero l'uno all'altra, occupati da altre cose, distratti qua e là dalla compagnia, finiva che si riaccostavano. Erano in una sala, e dopo un po', ecco che s'affiancavano, o sedevano vicini. Solo una stretta prossimità poteva acquietarli, ma pienamente, e quella prossimità bastava: non c'era bisogno di sguardi, di parole, di gesti, di un contatto; soltanto stare insieme. Allora non erano più due persone, ma una sola, in una beatitudine dimentica e perfetta, in armonia con se stesse e col mondo. Se uno di loro due l'avessero confinato nell'angolo più remoto della casa, l'altro, spontaneamente, senza proporselo, un po' alla volta l'avrebbe raggiunto. La vita era un enigma per loro, e la soluzione la trovavano solo insieme.

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