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mercoledì 24 luglio 2013

L'appartenenza

Ebbene, stavolta mi sono sforzata un po' di più: la storia è suddivisa in due capitoli.

1. La maglietta
Annalisa aveva rivisto Gaia dopo una sola estate passata lontane, ma era bastata a spezzare il legame. Il nodo indissolubile dell'appartenenza si era sciolto quando l'aveva vista in giro con le sue amiche più fighe, con quella maglietta nuova addosso che lei non ricordava affatto. Sicuro l'aveva comprata insieme a loro. Le persone care lo senti subito quando smettono di esserlo, quando puzzano di qualcun altro. Come quando una cagna fa i cuccioli, glieli tocca qualcuno e non odorano più di lei.
Ora s'incontravano: lei sfigatissima, impacciata con una busta della spesa in una mano e il pugno esile della sorellina nell'altra. I capelli ribelli, neri, ciocche lisce davanti al viso, e la mamma a pochi metri di distanza che l'avrebbe presto raggiunta. Gli occhi che per quanto scuri non sarebbero bastati a celare l'abisso; lei, l'altra, appena tornata, con l'odore di mare incastrato nella pelle, le lentiggini in bella vista ad evidenziare in modo imbarazzante l'abbronzatura, le bionde gemelle allampanate al seguito e poi quella lì dal viso intrigante e gli occhi così verdi da sembrare un labirinto.
Non avrebbe mai voluto, potuto competere con quella squadra di modelle. Lei che non era formosa, né slanciata e loro con un fisicaccio che avrebbe lasciato per terra anche un trentenne. E avevano tutte sedici anni. Tutte puzzavano di libertà.
Si era comprata un nuovo indumento con loro che lei non ricordava; presto non avrebbe riconosciuto più nulla dell'armadio di Gaia, della sua quotidianità e quello sarebbe stato il momento di tagliarla fuori.
Entrambe si fermarono. Gaia per prima, sorrise ignara leccando il gelato. Annalisa truce, la squartò con un'occhiata.
-Sei tornata...
Attaccò per prima, neanche qualcosa l'avesse costretta a difendersi. Se solo avesse potuto, quella maglietta gliel' avrebbe strappata di dosso e fatta a brandelli.
Gaia, in tutta la sua prorompente bellezza, i vestiti azzurri a sottolineare la profondità degli occhi verdi e dei capelli rossi, si bloccò incerta, investita dal gelo. Ondulando come una foglia d'estate... e non sembrava felice di vederla.
-Ciao Lisa.
Le piaceva chiamarla così, come nessun altro faceva mai. Si raccolse in un tiepido sorriso e continuò.
-Stiamo facendo un giro, vuoi venire con noi?
-Ho già da fare.
Rispose ostile, sollevando entrambe le mani. Poi l'interruppe sua madre.
-Ciao Gaia! Ma come ti sei fatta bella! Già, proprio una bella ragazza!
Lei balbettò un grazie. Lo sguardo indugiava su Annalisa senza spostarsi di lì.
-Che bella... ce l'hai il fidanzato? Una sera di queste vieni a cena e ci racconti tutto. Anna, vuoi andare con loro?
Passò un terribile, interminabile istante, in cui la figlia le squadrò tutte, senza trovare in loro grandi differenze l'una dall'altra. Poi rispose “No, ho da fare”.



2. Pelle nella pelle
Annalisa poggiò nervosamente la busta della spesa sul tavolo, la scatola delle uova scivolò fuori e cadde a piombo sul pavimento. S'impiastrò di quel muco arancio/trasparente. Ci avrebbe messo una vita a pulire.
Angelica, che aveva poco più di tre anni, la prese come un gioco e si avvicinò con l'intento di spargere l'impiastro sulle mattonelle.
-E togliti! Ma perché non potevo nascere figlia unica...
La strattonò via e prese in fretta e furia a rimuovere le tracce. Non poteva sopportare di vedere ancora quell'anomalia. L'errore.
La bambina corse via piangendo, attaccandosi alla gonna della madre. Aveva appena finito di parlare al telefono.
-Angy, vai a giocare col bambolotto in sala, che tata ha un attimo da fare.
Scosse la testa scoraggiata, ma ciò non l'avrebbe fermata. Marilena era sempre stata testarda fin da piccola, figurati se avrebbe mollato proprio con sua figlia.
Si appollaiò in tutta tranquillità al piano della cucina, alle sue spalle e quando aprì bocca Annalisa sobbalzò: non l'aveva nemmeno sentita entrare nella stanza.
-Guarda che l'ho visto come hai trattato Angelica! Se ti scocciava così tanto restare a darmi una mano, potevi andare a prenderti un gelato anche tu. Nessuno ti legava a casa.
La ragazza sbuffò con lo Scottex in mano.
-Non ci vado a fare la stupida, a prendere il gelato da sola.
-A me non sembravi sola...
Commentò Marilena, che non ci aveva messo nemmeno dieci secondi a centrare il punto.
-Tante cose non sembrano. O forse le noto solo io...
Respinse il colpo, gettando l'impasto d'involucro e gusci nel cestino.
-O forse sei solo gelosa.
-Gelosa di che?
-Niente Anna, la buttavo lì, tiravo a indovinare. Vai piuttosto a vedere cosa combina Angy, che devo inventarmi qualcosa per la cena. Senza uova.
Annalisa non provò nemmeno a tagliarsi con lo sguardo della madre; non voleva dare spiegazioni a nessuno. Non era lei che doveva spiegare. E non voleva sentire nemmeno le solite balle che si raccontano per metterci una pezza. Non da Gaia che era sempre stata pulita e sincera fino a quel momento. Avrebbe quasi preferito fingere che era morta, che lasciarsi ferire dall'abbandono. Voleva ricordare al meglio quell'amicizia.



Era passata una settimana. Gaia, nel mettere a posto i panni, prese la maglia azzurra, la schiaffò nell'armadio e ci gettò sopra le peggio cose come a voler stratificare. Fingere che non sia mai successo niente.


Annalisa non capiva un accidenti di quello che stava leggendo. Troppe date, troppe vicende. Studiava storia con voracità, solo perché sperava di trovare sé stessa trovando il passato, ma era una materia per quelli con la memoria. E non l'aveva mai studiata da sola prima d'ora. Allora quel pensiero la trapassò come una fitta intercostale.
Sentiva l'odore di solitudine appestare l'aria intorno a lei. Perché non valeva un cazzo, e purtroppo lo sapeva bene.


Poi il telefono squillò. Presa da un presentimento netto, che mai avrebbe potuto essere più preciso, non rispose.



Marilena era tornata tardi da lavoro e non aveva avuto nemmeno il tempo di fare la spesa. Con fare imperativo le lasciò la lista farcita di parole sulla scrivania. Annalisa alzò lo sguardo, si accorse di avere il mal di testa e seguendo il pensiero “massì, almeno mi svago un po'...” accettò di buon grado l'imposizione. In fondo era una ragazza buona, che difficilmente faceva storie quando si trattava di dare una mano.


Tornò tre quarti d'ora dopo, trovando la tavola apparecchiata e un ospite di troppo.
-Tata c'è Iaia!
Le corse incontro sua sorella. Annalisa la prese in braccio e la fece roteare, ma la faccia era di marmo. Accennò solo una parentesi di sorriso aperta per non spaventare Angy, che andò a spegnersi immediatamente. Lo scontro era impari: sapeva bene che suo padre, tipo riservato, non si sarebbe mai immischiato nelle sue faccende... ma sua madre, oh si, sua madre puzzava senz'altro di tradimento: una come Gaia non fa occupazione in casa altrui; ci viene solo se invitata.
I bocconi scendevano uno ad uno di traverso. La gola sembrava aver messo le spine, bevve più volte l'acqua per far scendere quei quattro pezzi di carne tagliati cento volte a testa.
Le due non parlavano. Era come se a tavola ci fossero solo Marilena che incalzava le discussioni, Mauro che raccontava di lavoro, Angy che mangiava disegnando e ad ogni cosa che creava urlava per mostrarla a tutti.
Annalisa finì per prima e sgattaiolò in camera sperando di non essere seguita, invece Gaia terminò in fretta e replicò i suoi passi come un'ombra.
La porta della camera si aprì quando Annalisa ebbe letto per l'ennesima volta la stessa frase. Se qualcuno le avesse chiesto di ripetere il tutto da capo, non avrebbe saputo neanche lontanamente da dove iniziare.
-Ho un sacco di schemi per studiare quello. Se vuoi...
Testarda, Annalisa continuò a voce più alta per sovrastare i “ronzii” di sottofondo.
-Sul serio, è più semplice così.
Il libro si chiuse come un portone in faccia. Ci si appoggiò sopra di peso, coi gomiti. Voleva solo distruggerla, perché per lei Gaia non c'era più.
-Che c'è, adesso ti faccio pena? Hai finito le amiche con cui fare shopping?
-Lisa, io non ho amiche per fare shopping...
Quel “Lisa” le fece provare la stessa pugnalata che Cesare ricevette da Bruto. Anche Cesare si fidava di lui, prima di tirare le cuoia.
-Sei brava a spararle. Ora vai, ho da studiare.
-Non farò muri che non potrai scavalcare, non avrò porte che non potrai aprire. Il patto di sangue, ricordi? Non siamo semplici amiche; siamo sorelle, io e te.
Messa di fronte alle sue responsabilità, al ricatto affettivo stipulato da due bambine di otto anni che non sapevano nulla della vita, Lisa fu costretta ad aprire la porta, quel tanto per far passare lo spiffero. Si spostò dalla scrivania, si sedette sul letto e fece cenno a Gaia ancora in piedi, di fare altrettanto.
Il viso acceso dal dolore, supplicava a lei d'iniziare, di tentare di salvare il loro legame, se davvero lo sentiva ancora. Le lampeggiavano quei bottoni scuri dalle pupille lattiginose.
La maglia di Gaia non le donava affatto. La tinta senape le spegneva i lineamenti; sembrava tanto una rosa appassita. Sembrava trasparente.
L'ultima volta che l'aveva vista stava cercando di farsi crescere le unghie, ma la sua ansia evidentemente le aveva rosicchiate a sangue. Senza pietà.
Così iniziò a spiegare.
-Non so più come recuperare la nostra amicizia, tu non mi parli più... e quest'estate è stata uno schifosissimo incubo. Non puoi nemmeno immaginare.
La proverbiale diffidenza di Lisa verso il mondo e le persone in genere, la teneva ancora a distanza; non voleva mischiarsi a quel dolore se non era vero. Però ascoltò. Intensamente, come nessun' altra avrebbe saputo fare.
-Non volevo che mi vedessi con loro... me ne vergognavo. Per tutto questo tempo mi sono fatta schifo e non potevo parlarne con te.
-Che ti vergognavi di me non avevo dubbi.
I capelli erano sempre troppi. Gaia tirò indietro una ciocca con la mollettina e abbassò lo sguardo. Da quel momento smise del tutto di guardarla negli occhi.
-Non di te... di loro. Non volevo che mi vedessi con quella gente. Le gemelle sono amiche strette dell'altra ragazza con cui mi trovavo. E' la figlia del capo di mio padre, frequentavano il nostro stesso chalet e sono stata costretta a passarci l'estate insieme. Mio padre si è raccomandato di essere carina, che ne andava del suo posto, ma loro non sono state affatto carine con me.
La maschera di Lisa si sciolse quando la schiena dell'amica si fece pesante, si scompose verso il basso come se sostenesse troppo peso. Le lacrime sgorgarono da quel corpo debole che Gaia non sapeva più governare. Le parole uscivano a fatica e i singulti quasi le ricacciavano indietro.
-Si chiama Marisol. Ad una festa mi ha presentato suo fratello Fernando. Ha parlato un po', poi mi ha infilata a forza in uno stanzino, mentre la musica era forte e mi ha messo le mani ovunque. Infine mi è entrato dentro. Nessuno mi avrebbe sentita urlare.
Fece una pausa. Poi ripeté quella frase come se uscisse dalla bocca dell'oltretomba.
-Nessuno mi avrebbe sentita urlare. Mamma mi ha detto che dovevo solo stare zitta, che se no papà perdeva il lavoro...
-Non ti è piaciuto neanche un po'?
Cercò di minimizzare in modo stupido, insensibile, infantile e sbagliato Lisa, che non sapeva più sbrogliare quella matassa. Se solo avesse potuto si sarebbe rimangiata le sue domande cretine una per una, con gli interessi.
-Ha trent'anni... il giorno dopo mi ha regalato una maglietta, dicendo che mi stava bene. Poi ha aggiunto che almeno quando la portavo smettevo di sembrare una miserabile. Tutti mi trattavano da miserabile e avevo paura.
Tremava. La pelle si fece ancora più pallida. La sua amica, resa donna dall'ingiustizia degli altri esseri umani, avrebbe solo voluto scomparire. Disgregarsi, come era già successo con la parte migliore di lei.
Lisa voleva entrare in punta di piedi, evitare l'ennesima indelicatezza e osò l'unica cosa che poteva fare: l'abbracciò, ma non di convenienza come fanno quelli a cui non dispiace manco per il cavolo; l'abbracciò davvero, pelle nella pelle, scomparendo un po' anche lei. L'abbracciò, di quegli abbracci che si accollano un pezzo di dolore della persona che ami per non lasciarla soffrire da sola.
In un solo gesto erano tornate quelle due bambine di otto anni della promessa: ingenue, spaesate, diverse dal mondo intero. Ma sorelle.

lunedì 22 luglio 2013

Io, Cinquanta sfumature e le fanfiction

Ebbene, ladies and gentleman, vi annuncio che tanto per essere ovunque e colonizzare le galassie (ma quello era ovvio), mi sono data alle fanfiction! Esatto, proprio così, avete capito bene: sarà mio il nuovo Cinquanta sfumature e conquisterò il mondo...
Ok, la smetto; cesserò di scrivere boiate. 

Baggianate a parte, spinta dalla curiosità e dall'ispirazione ricevuta dalla lettura di alcuni post sul sito, mi sono iscritta. Ed eccomi anche QUI
E' da poco che sono un'utente attiva: inizialmente il mio profilo aleggiava senza senso alcuno, perché per lasciare un tuo racconto sulla "piattaforma" ci sono un mucchio di regole e un interrogatorio chilometrico. Poi per certi versi sono all'antica e lì ti viene richiesto d'incasellare la tua idea e non sai da che parte andare. Io tante volte scrivo e non so nemmeno io cos'è, che razza di ammasso ho partorito, figurati quant'è facile riconoscere le sigle EVBY   HNILNI  HJBY (le ho inventate sul momento, tranquilli) e ne sono taaante. Uuuh se sono taaante; roba che neanche in chimica la facevo così. Però poi, con la calma mi sono adattata e ho cominciato a postare (solo una fanfiction che mi pendeva dall'anima, per il resto son racconti originali...ma il tutto lo trovate anche passeggiando per codesto blog).
Ovviamente non aspettatevi che tutti gli utenti sappiano scrivere: la lamentela più diffusa è che il sito dia spazio anche a storie scritte coi piedi, sgrammaticate ad arte e dai concetti vuoti, banali. Storie piene di Mary Sue.
Nel complesso la mia valutazione è positiva, visto che non ritengo normale che paghi il giusto per il peccatore. Lì in mezzo ci sono anche veri e propri artisti che credono in quello che scrivono, che prendono il mondo e lo schiaffano sul web senza pietà, né risparmio del proprio dolore. Gente che quando gli gira fa introspezioni di dieci righe, ma magari in quei tre secondi che leggi ti si rizza la pelle. 
Senza contare che molti, in mancanza di un trampolino di lancio editoriale, iniziano proprio così, può sempre valerne la pena. Voi che ne pensate?
E soprattutto (non scherzo): qualche anima pia avrebbe la decenza di spiegarmi una volta per tutte chi diamine è Mary Sue?!

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L'acquerello giaceva sbafato per terra, da ore, ferito da un segno nero da attacco di rabbia improvviso. Un raptus da ripudio dell'arte, o di sé stessa. Amy quel foglio l'aveva tradito, umiliato, abbandonato alla deriva, completamente immersa nel suo gin che la faceva naufragare verso mari lontani. Le faceva varcare orizzonti più prossimi di quella stupida vela su un foglio, barca sfriciacchiata su carta che non approdava mai in nessun porto.
Si era portata via quanti più ricordi, quanto più poteva del suo stupido paesino di provenienza. L'aveva stipato tutto in quella stupida stanza, pur di non sentirne la nostalgia. E non era bastato: quella vecchia strega martellava in ogni istante, su ogni fragile parete della sua anima. Nulla la consolava più; le foto, i peluches, i regali non riempivano mai la distanza, non placavano mai la fame di amore, di baci, di carezze, sicurezza. Nulla bastava più a motivarla, nemmeno i suoi sogni. Forse non voleva più essere un grafico, non voleva più essere una col progetto di vita speciale, studiare anni e anni per incontrare un gigantesco boh. Il futuro.
Lei voleva vivere adesso. Adesso non significa "un giorno scalerò il mondo e per adesso ingoio merda"; adesso significa sentire i brividi di felicità, quella sensazione di appartenenza di quando guardi un lago da un pontile e la brezza ti punge leggera. Adesso è sentirsi a casa, non sgomitare tra sconosciuti per accaparrarti un angolo in cui piangere.
Bevve ancora, a sorsi grandi per annacquare la testa. Per diluire il dolore che come pus non smetteva più di gonfiare, infettare le ferite. Cominciò tutto a girare troppo e si sdraiò sul letto. I suoi bisogni affettivi non facevano che crescere. Si sentiva sola, lontana dall'esistenza, lasciata col cuore aperto, sventrato. Squarciata e lasciata in un angolo a morire.
Le sembrava tutto così drammatico... e vero. Non è un film; è l'esistenza che ti succhia via le energie. Lui non era più certo di amarla e chissà con quante l'aveva già rimpiazzata con la scusa del dubbio, col ricatto del "non dovevi andare". Eppure non voleva tornare da lui; pregava ogni giorno che quel legaccio si allentasse col tempo, fino a spezzarsi per sempre. Fino a smettere di fare così male.
Si mise a sedere e ingollò altro alcool, la gola desensibilizzata dai precedenti sorsi non bruciava già più. Stringeva tra le mani tremanti la bottiglia per non farla cadere, quasi fosse un tesoro. Quasi fosse l'unica cosa rimasta. Voleva annegare in un limbo in cui non esisteva più niente, in cui le cose non dovevano necessariamente avere un senso. Un universo in cui si poteva sorridere senza che quel sentimento genuino venisse guastato da qualcosa di marcio, in cui amicizie e amori non venivano abortiti dal tradimento. Nell'alcool ci poteva credere davvero: almeno le offriva qualcosa di reale, non come le promesse della gente, non come i sorrisi falsi, i finti "ti voglio bene", i "ti amo". Non come il futuro.
Diede un calcio al bicchiere sporco di nero e scoppiò a piangere a singhiozzi fragili, scheggiati, che si potevano appena percepire da fuori, ma dentro erano un piombino nell'anima. Una cartuccera sparata intera nel cuore.
Sentì il gin arrivare, salire, rovesciarle lo stomaco, provocare quel senso di vomito e nausea, misto all'euforia; la vista a scomparsa, il mondo che si frantumava in miglioni di flash. Infinite stelline che allungando le mani le poteva cogliere davvero. In quell'attimo di distruttiva decadenza, di abbandono feroce, si sentiva sempre così indifesa, ma in pace.
Se non sei vigile, se niente ti può raggiungere fin dove ti sei nascosta e non può venire a stanarti, non può nemmeno far male. Il lupo non può mangiarti se non ti trova in casa.
Con ancora quel barlume di lucidità rimastole per concepire tale pensiero, capì che non ne aveva abbastanza: non si era ancora fatta abbastanza del male, perché ancora poteva capire, sentire le schegge alzarle la pelle.
Ancora non era riuscita a sfuggirgli: le immagini delle amiche, di casa, dell'amore, dei baci, continuavano a raggiungera, afferrarla, ghermirla.
Non guardare indietro.
Bevve con più foga fino al soffocamento, fino all'attimo in cui ti alzi e le gambe non ti reggono più e cadi. Si, le piaceva nonostante tutto, cadere ancora. Perché cadere, morire da anestetizzata faceva meno male. Vivere da ubriaca, era come gettarsi cadendo sempre su un materasso, oppure saltare da un grattacielo fino a toccare l'asfalto, ma da già morta.
Feriva meno l'abbandono se non aveva più gli occhi per vederlo, le orecchie per sentirlo, le dita per toccarlo. Non poteva nemmeno più piangere, se non poteva accorgersi che il mondo si era dimenticato di lei.





David era tornato.
Che poi di solito si torna nel luogo in cui si vive; ma lui non viveva, nè dormiva lì.
David non avrebbe nemmeno lontanamente dovuto trovarsi in uno dei dormitori singoli delle ragazze. Eppure, ogni sera trovava il modo di entrare e la forza di vederla così. L'aveva lasciata che dipingeva, ma l'aveva fatto di nuovo: si era infuriata e quel fuoco aveva bruciato ancora il suo innato talento. Poi, quelle mani leggere d'aria s'erano attaccate alla bottiglia e si erano staccate solo approdando in un altro universo. Si fermava solo quando si sentiva abbastanza abbattuta, annebbiata da quel perverso meccanismo che la ingoiava per intera, senza nemmeno sputar fuori uno straccio d'anima intatta.
Trovarla ogni sera spalmata sul tappeto era una fitta lancinante alla milza, di quelle che ti prendono quando corri troppo e se ti fermi per farle passare non cambia un cazzo lo stesso. Quelle che quando le senti arrivare puoi fare quello che ti pare, tanto ormai sei andato. A volte si sentiva quasi tentato di attaccarsi a qualche altra bottiglia e fare lo stesso, sperando di poterla raggiungere.
E poi? A lei chi avrebbe pensato? Laddove nessuno c'era, perlomeno lui doveva esserci. Lui era quella stessa fitta alla milza, quel qualcosa che viene e si attacca, ma tendenzialmente non serve a niente.
La sollevò da quel degrado che ben poco aveva a che fare con lei.
Nuovi segni sui polsi: provava tutte le volte a volare via, ma fortunatamente non aveva il coraggio di farsi più di quei graffi a carne viva. Non tagliava mai davvero e lui pregava che non si sarebbe decisa mai.
-Dai, forza e coraggio, andiamo a vomitare.
-Ma io ne voglio ancora!
Allungò la mano dove era solita tenere il gin: il suo preferito.
-No no no. Adesso fai la brava e vomiti.
Reggendola come si fa con i bambini, la condusse passo strascicato dopo l'altro al wc. Le mise due dita in gola e lei cacciò via tutto il veleno che si era portata dietro e le strozzava l'anima. Amy lo osservò per un istante solo, con lo sguardo assente di chi non vuole esistere e una scarica lo attraversò brutale. Esitò e perse l'equilibrio peggio di lei, che senza sostegno vomitò fuori dal water e scoppiò a ridere, poi si spense di nuovo. A David scoppiavano le tempie e frammenti di sé si spezzavano, incrinati dal peso del dolore.
Ogni dannatissima sera si chiedeva se ce l'avrebbe fatta il giorno seguente; ma quando riusciva a farla adagiare sul letto, e tentava i rimedi più assurdi per far si che la stanza smettesse di girare per farla dormire, si sentiva sereno. E poi aspettava un'altra ora. Perché poco prima di sprofondare nel sonno, quello da botta in testa che ti porta via, lo diceva sempre. Non mancava mai di dirlo.
-Michael, ti amo. Sono contenta che sei tornato.
E lui avvampava lo stesso. Consapevole che non sarebbe mai stato quel Michael lì che viveva all'altro capo del mondo, che le stava rubando la vita. Avvampava, perché lei poteva fuggire nell'alcool; lui solo in quella fantasia. Tremava, perché se solo fosse stato Michael, l'avrebbe salvata. L'avrebbe convinta a non tagliarsi più, le avrebbe portato via le bottiglie e ricattata con quei ricatti che possono permettersi solo gli uomini che sanno rubare il cuore di una donna e manovrarla come vogliono. Le avrebbe impedito di farsi del male o se ne sarebbe andato.
Ma lui non era Michael: era David. Era solo l'amico del corso di Disegno. Quello che se andava via non importava a nessuno.
E David, come ogni maledetta volta, sarebbe uscito strisciando da quella stanza verso le tre di mattina, si sarebbe svegliato alle sette in punto e a lezione avrebbe dovuto far finta di niente: scherzare con lei, fingere di non capire che stava male -passando anche da insensibile-, inventarsi un sacco di balle sul perché era sempre stanco -tipo: ho passato ore al computer a giocare- e mostrarsi felice della propria vita.
David era costretto a farle credere che ogni notte affrontava i mostri da sola, anche se non era vero. Anche se il dolore di lei sapeva sempre penetrarlo, tanto che alla fine si convinceva anche lui che doveva esserci Michael. Cercava d'ignorare i segni del vuoto, quelli che lei si portava sui polsi e non sapeva celare, si sforzava di non farglielo notare per non farla arrabbiare.
E tutto questo, per sentire un ti amo detto a qualcun altro.
Questo perché, se non ti chiami Michael, ti accontenti anche di morire, pur di vivere un po'. Perché il dolore, se non puoi curarlo ferendo qualcun altro, né correggerlo con l'alcool, l'unica cosa che ti resta è sopportarlo e lasciarti scarnificare.

venerdì 19 luglio 2013

D'Avenia e il professore.

A poco a poco tutti se ne andarono, con un giorno scolastico memorabile nel cuore. A distanza di anni non avrebbero ricordato più la quinta declinazione latina, la formula del nitrato di potassio, la data della battaglia di Waterloo e il nome degli autori della Scapigliatura, ma nella memoria sarebbe rimasto il dono che l'acqua aveva fatto loro: il primo libro dell'Odissea nel parco vicino alla scuola. Come tutti gli uomini avrebbero ripescato dal cuore ciò che era nato da libertà, dono e passione, e non da semplice conoscenza, che per la memoria non basta. Solo amore e dolore ricordano.
Questo è un meraviglioso passo tratto da "Cose che nessuno sa" che ho consumato con gli occhi, fino a sciogliermi e liberare dal cuore quella lacrimuccia tanto ben nascosta. Per un attimo ho anche smesso di leggerlo, perché cominciava a toccare nervi scoperti, a bruciare. Mi sentivo una cretina a piangere da sola con un libro in grembo, in una così bella giornata di luce. D'Avenia, con la scrittura ci sa fare e si vede che ha a che fare col mondo dell'insegnamento: nei suoi scritti compare spesso la figura dell'insegnante; non "supereroe" che si getta per salvarti mentre ti lanci da un palazzo, come Onizuka di GTO, ma presentato come un essere umano sensibile, particolare, capace di cogliere le sfaccettature nascoste della realtà ed aiutare i ragazzi a trovare la propria strada. L'epico professore che ama quello che fa, che ti aiuta a risolvere il lato esistenziale della vita.
Voi tutti commenterete <<Si, che bella favola!>> Tornando con la memoria alle angherie, ai brutti voti piombati dal cielo talvolta senza un effettivo "perché", alle urla d'incomprensione, all'ultima parola voluta dire per forza senza fermarsi a capire l'alunno. L'amaro in bocca, l'educazione che vi ha impedito al momento di replicare il  colpo che ha tagliato a fondo l'anima, ferendo. Le maledizioni implicite scagliate solo nella fantasia, nella vostra testa. Purtroppo sono esperienze che capitano e ognuno ha il proprio episodio da crisi di nervi.

Io però vorrei ringraziare l'autore, perché ha scavato fino a portare in superficie ricordi intrisi di dolore: perché ciò che è bello e ti accarezza l'anima, quando smette di esserci ha un retrogusto amaro...ma non per questo deve essere dimenticato; perché dimenticare qualcosa è come perderla davvero e tu, finché un ricordo lo conservi, non lo perdi mai. Anzi; il mondo intero dovrebbe sapere, che certe persone non sono un'utopia, pupazzetti usciti da un libro e inventati per tener su quel minimo di speranza: insegnanti così esistono davvero.
Io personalmente sono rimasta commossa, toccata da questo piccolo sipario di narrazione. Vi fornisco un piccolo sunto per chi non conoscesse la storia: la scuola viene allagata. Allora un professore prende la sua classe e di punto in bianco la porta a leggere l'Odissea al parco lì vicino, dando vita a una lezione che pochi di loro saranno in grado di dimenticare.
Io le persone importanti della mia vita non le cancellerò mai; sono infiniti i volti, le anime che devo ringraziare. A coloro che mi hanno insegnato qualcosa, che hanno contribuito a rendermi quella che sono e credo che sappiano benissimo che sto parlando di loro: Grazie.
Tuttavia, quest'episodio particolare, mi ha ricordato specialmente qualcuno a cui devo più di tutti il mio amore per la scrittura, che al tempo aveva visto in me molte più cose di quante io stessa ne avrei potute mai vedere; che forse era capace di scorgere così in là, da prevedere cosa sarei diventata in un futuro troppo lontano: il mio prof.: una persona fredda all'apparenza, ma dal cuore enorme, da cui credo o perlomeno spero, di aver imparato in primis la coerenza, l'impegno e a non tradire mai me stessa. D'Avenia, col suo racconto, ha strutto quella calotta di cuore resa dura dai troppi anni passati e ha liberato come farfalle i ricordi. Pilastri di un'esistenza in cui stare al mondo era ancora un castello troppo fragile; un'età, che avere gli anni di Margherita del libro significava già essere grandi. Sono ancora nitide in me alcune componenti delle sue lezioni all'aperto, di cui effettivamente non mi è rimasto il titolo del libro che stavamo leggendo; ma si è inciso a fuoco l'odore dell'erba, del vento che ci accarezzava la pelle. Indelebile è la complicità docente-alunno creata da tali circostanze, in cui ti senti realmente felice e predisposto ad imparare qualcosa e approfondirlo perché sembra che ti serva davvero. E' rimasta l'immagine di un grande uomo che amava la cultura, il suo lavoro e i ragazzi a cui insegnava. Una persona che, nella vita di una ragazzina, incontrarla o meno fa davvero la differenza con ciò che lei sarà un giorno. Se non lo avessi conosciuto, sinceramente non so se avrei avuto la stessa curiosità, lo stesso amore per la lettura, la stessa voglia di scrivere, la fame di parole.
Volevo solo farlo sapere al mondo, che per tanti che svolgono una semplice mansione senza sentirla a pieno nell'anima, ci sarà sempre qualcuno che a distanza di troppi anni non dimenticherete mai.
Avrei voluto poter ringraziare il mio prof. Da sempre avrei dovuto dirglielo: anche se, come aveva già capito quando ero a malapena una bambina, mi sarebbe rimasto più facile scriverglielo. E spero che da qualche parte sia fiero di me, anche se ancora sono solo una ragazza con la testa piena di sogni.
Auguro a chiunque sia alunno, d'incontrare persone competenti non solo nella propria disciplina, ma anche in umanità; che riescano a tirar fuori da loro ciò che saranno davvero.

Recensione - Cose che nessuno sa di Alessandro D'Avenia


Titolo: Cose che nessuno sa
AutoreAlessandro D'Avenia
EditoreMondadori
Pagine329
ISBN9788804609162
Prezzo19 €

Trama: 
Margherita è una ragazzina di quattordici anni che si appresta ad affacciarsi, tra mille dubbi e paure, al mondo del liceo. Tuttavia, si sente al sicuro finché suo padre, uomo forte e coraggioso resta al suo fianco e finché nonna Teresa continua a impastare le sue torte fatte d'amore e consigli. D'un tratto però, il fragile castello di carte delle sue sicurezze vacilla: il padre ha dei problemi con sua madre, pertanto se ne va di casa,  a Genova, abbandonando la ragazzina al suo dolore. Secernere gli strati per proteggere sé stessa, la perla, dal predatore, si fa sempre più faticoso con l'ingresso nel mondo della scuola. Tra la diffidente ostilità di alcune compagne e le incomprensioni, troverà però anche volti amici come Marta, che le insegnerà che esistono cose che nessuno sa, o come il prof. che grazie alla lettura dell'Odissea le regalerà Telemaco come guida, riferimento per sapere cosa fare. Come impedirà al puzzle della sua vita di sgretolarsi definitivamente e perderne i tasselli? Cosa vorrà da lei Giulio, quel ragazzo misterioso che, con lo sguardo di ghiaccio ha rapito una parte di lei?
Le domande più importanti dell'esistenza, hanno davvero le risposte o sono semplicemente Cose che nessuno sa?

Recensione:
Non era la prima volta che leggevo D'Avenia: ho avuto la fortuna di gustarmi anche Bianca come il latte, rossa come il sangue, trovandolo davvero un bel libro. Da qui, si snoda sempre il solito dilemma: il secondo lavoro sarà meglio o peggio del primo?! Superare la grandezza o perdere qualcosa lungo la strada?!
Ebbene, il verdetto è: il secondo figlio ha superato a pieni voti l'esame. Se il precedente era molto bello, questo è incomparabilmente sublime. Partendo dallo stile (colto a non finire in ambedue i casi: D'Avenia è pur sempre di un professore, non dimentichiamolo), c'è una crescita esponenziale, in quanto si utilizza un linguaggio più adulto. Bianca come il latte, rossa come il sangue è penalizzato dall'eccessiva semplicità, che è si funzionale alla focalizzazione in un protagonista sedicenne, ma va a scapito del lessico e delle sfumature. Invece qui è tutta un'altra storia. Non c'è più la semplificazione, seguita da una caduta nel drammatico all'ultimo momento che costringe alla fine ad uscire allo scoperto e usare le parole appropriate.  Parlando di Cose che nessuno sa, non lo si può definire esattamente un romanzo di crescita, o meglio non solo; è molto di più. Con un approccio più maturo, si affrontano il dolore con le sue  molteplici sfaccettature, la paura della una famiglia e delle sue responsabilità, l'intraprendere una ricerca più grande di noi al fine di creare un futuro migliore. 
Ci tengo a sottolineare un pregio molto importante di questo scrittore, che forse è dovuto molto più al genere di vita condotto, alle esperienze, ma questo non lo sapremo mai con certezza. Fatto sta, che a parer mio ha un dono particolare, speciale, che manca persino ad alcuni che hanno fatto la storia della letteratura. Ora ci arrivo, fatemi farneticare un po'. Ognuno, nello sporcare il foglio, butta giù quello che ha dentro e nel caso dei grandi meno fortunati, si sono ritrovati a riversare rivoli di sofferenza di un'esistenza stroppia, infelice, gettandoli lì senz'argini, inondando qualsiasi cosa, distruggendola, angosciandola. Una buona maggioranza, per questo motivo è sublime da un versante solo, come se non si ritrovasse mai ad esprimere la felicità, la completezza, il senso d'infinito delle cose. Come se fosse dotata d'infiniti vocaboli per analizzare, sezionare lo sfregio della vita, la distruzione, senza trovare mai la via per curare il proprio morbo, senza mai trovare un senso, dare un nome al proprio male di vivere. Ho visto spesso geni della scrittura esprimersi con la foga degli spettri; senza conferire mai un senso di speranza a nulla... e probabilmente non è colpa loro, se qualcosa li ha ridotti a dilaniarsi senza trovare le risposte. Alessandro D'Avenia, presenta invece l'invidiabile capacità di esprimere, approfondire con lo stesso impegno, profondità, sia gioia che dolore. Io in quelle pagine ci ho sentito l'infinito, la voglia di morire e rinascere più forte di prima, il formicolio del mondo che chiama, del futuro che ti cerca, da cui non puoi scappare ed è inutile avere paura... o meglio, è normale. 
Una vita che non attraversa la paura non esiste, è una maschera, è finta.
Mi è capitato raramente, di trovare in un  libro così tanta trascendenza, spiritualità tra una riga e l'altra, in cui ogni conflitto lotta per risolversi da solo e poi si dissolve. Dopo una tempesta dalla portata epica, tutto si salva grazie alla pace. Dopo una lettura del genere, in cui accadono a catena avvenimenti uno peggiore dell'altro sottolineati dallo strazio viscerale, sentito della negatività, si assiste a un completo rovescio della bilancia: una piena, inaffondabile luce. Trovo tutto ciò indice di una personalità bilanciata, in cui sono rimaste le tracce, solo i solchi delle ferite passate e che ha trovato una propria dimensione. Una persona che riesce a vivere per intero, sentire il respiro dell'universo e trasmetterlo al lettore, come un regalo per tenerlo per mano.
Ricorrono a non finire citazioni dell'Odissea e di altri libri, per non parlare di quelle musicali specialmente  a De André (al quale viene fatto un tributo più che esplicito), che non mancano mai; ridondanze ovviamente gradite, anzi, rendono speciale, unica la storia. Zone cittadine e paesaggi vengono descritte fino a piantarti i brividi e di quelle caratterizzazioni, di quegli scorci, riesci a sentire soprattutto l'odore del tipo di vita che vi si conduceva. Come se le immagini fossero intrise di odori e situazioni.
Ciò che ho apprezzato infinitamente dello scrittore, è il suo modo di comprendere le donne: come se avesse passato davvero molto tempo a cercare di capirle, a interpretarne il respiro, i pensieri, le paure, il modo di sentire la vita. Sa farci sentire degli esseri importanti, portatori di segreti. Unici e speciali.
La memoria delle donne non è situata nella testa, ma nel corpo, dappertutto. Anima e corpo in una donna sono più uniti, e ogni parte del corpo ricorda, soprattutto quando ha perso la mano che l'accarezzava, le braccia che la sollevavano, le labbra che la baciavano 
 L'amore è fatto di carne. L'uomo desidera la donna e la risveglia: lei si sente voluta, amata. Quando un uomo tocca una donna ci tocca l'anima. Non tutti gli uomini arrivano a sentire l'anima sotto le dita, alcuni vastasi si fermano alla scorza. Una carezza sulla pelle di una donna è capace di allisciarci l'anima, uno schiaffo di frantumarla... 
Attribuisce all'anima femminile una specie di memoria tattile, una sensibilità spiccata, quasi una capacità più grande di credere nell'amore e nelle parole. E' riuscito davvero a giungere al nucleo, senza esprimersi con quelle frasi fatte che alle donne fanno sempre piacere, ma son ricalcate, copiate. Cliché. Non si è fermato all'involucro; l'ha spazzato via per analizzare il cuore, la sostanza di un universo completamente diverso da quello maschile, che di solito si fatica a comprendere.
Passando ai personaggi, hanno ognuno un'umanità diversa e qualcosa in fondo all'anima con cui non hanno ancora fatto pace. Il professore, ad esempio, così netto e risoluto nel leggere i suoi libri e consigliare gli alunni, manifesta gravi disagi ad agire in senso pratico; sia quando gli viene chiesto aiuto, sia quando Stella, la sua ragazza, gli chiede di fare un passo avanti con la loro relazione. Quell'uomo zeppo di frasi, non ne trova mai una per dire si ed assumersi responsabilità serie. Eppure non si tratta di una storia che fatica ad andare avanti; i due sono ancora carichi di sentimento e scaldano il cuore: hanno addirittura un mondo proprio, un modo tutto loro di comunicare, fatto di titoli, di aforismi. Si farciscono a vicenda le vite di magia.
Margherita invece, ha una sfida personale da affrontare: cercare di superare in ogni modo la "perdita" del padre e se non ci riesce, trovare un modo per riportarlo indietro. E poi c'è Giulio: un ragazzo reso spigoloso dalla mancanza di affetti veri; eppure così sicuro di sé, così forte da poter affrontare tutto... tranne lo sguardo disarmante della fragilità di Margherita. Un possente guerriero preso in trappola da una piccola lucciola incerta. E' un momento magico quello dell'incontro; semplice eppure descritto ad arte. Perciò non ve lo riporto, perché se vi rovinassi la sorpresa perdereste il gusto di leggerlo.
Infine c'è la storia della mamma di Margherita. Quella di nonna Teresa (componente importante della vita della ragazzina) e di suo marito Pietro, a cui mancano  dei tasselli, che parla di una casa gialla in cui la nipotina vorrebbe tornare e di nostalgia ... o forse di dolore. 
E' un romanzo dalla trama ben tracciata e complessa, in cui intorno ai due protagonisti ruota tutto un mondo di vicende, fallimenti, amori. 
Più che una narrazione di assoluzione, come è stata definita da tutti (che mi sa un po' di rassegnazione/autocommiserazione: mi perdono tutto e basta...evviva), oserei dire che si tratta più di un romanzo sulla reazione; sul coraggio, sull'imparare a cadere e rialzarsi senza crogiolarsi nel dolore, senza lasciarsi distruggere da esso. 
Forse alcune ferite non si chiuderanno, ma il destino di alcune ferite è rimanere aperte proprio per non abituarcisi, proprio per non consentire mai alle maschere dell'abitudine, della noia, del disamore di aderire alla carne viva.
Parla di una delle lezioni più importanti della vita: imparare ad aprire le porte dell'anima a ciò che ci salva; permettere di entrare perlomeno a quei pochi che, quando siamo rotti, ci amano lo stesso ed hanno il coraggio di rimboccarsi le maniche ed aggiustarci. C'è la lotta per i sogni, che non vanno abbandonati solo perché difficili.
Un altro fattore da valutare e che spesso si dà per scontato ma non è così, è l'emozione: man mano che mi avvicinavo alla fine, crescevano l'entusiasmo, le palpitazioni, la tensione. Il finale risolutivo, chiuso, in cui tutti i nodi vengono al pettine, è proprio ciò che ti tiene incollato da metà libro in poi, che ti fa sentire l'adrenalina della lettura. Io, personalmente, ogni volta che riesco a provare questa strana frenesia, mando un grazie in cielo. Questo febbrile attaccamento a un libro, morboso fino al completamento della lettura, mi riporta sempre il ricordo di me da bambina, che anche se dovevo andare a scuola il giorno dopo, facevo le tre e mezza leggendo Harry Potter, perché se lasciavo perdere all'ultimo nemmeno riuscivo a dormire. I libri degni di essere letti, sono proprio quelli che ti catapultano in un mondo frenetico, dove si scatena una febbre selvaggia, una fame di sapere, che ti tira pagina per pagina a raggiungere il finale della storia.
Poi non c'è altro da aggiungere... sublime. Punto.

mercoledì 10 luglio 2013

Rinnegato.

Questo intervento necessita di una piccola, breve spiegazione. E' frutto del contagio passeggero da parte del mondo delle fanfiction, che pur non essendo il mio, ha saputo ispirarmi, tirarmi fuori qualcosa. Quindi si; codesto post incriminato va considerato una specie di fanfiction su Brian Molko, frontman dei Placebo. Diciamo che tutto ciò non contiene una vera e propria storia: mi sono limitata a sentire, cercare d'interpretare ciò che la sua anima potrebbe (o avrebbe potuto tempo fa) contenere. Non v'è nessuna pretesa di dare una cronologia specifica agli eventi, che in un certo senso si mescolano alla rinfusa, si amalgamano. Perché non è l'ordine ciò che è importante, quanto il senso. Percepire,  identificare il dolore e le sue fonti. Volevo tirar fuori il veleno che si prova quando per trovare una propria strada, si finisce per sentirsi incompresi.




La mia anima è uno strapiombo. Un precipizio di cui non vedo la fine, che inghiotte la bellezza intorno e la ricaccia logora, sfregiata. Io so solo usare, sporcare un foglio di parole, imbrattare la gente che ho vicino con lo schifo che mi porto dietro. Distruggo ogni cosa e getto i detriti in quella trappola letale, sperando che si riempia prima o poi. Intanto ho macchiato di petrolio un'altra anima. La ragazza si riveste e forse correrà dalle amiche a raccontargli che si è fatta un aspirante musicista e lo considereranno figo. “Il mio cuore è una sgualdrina”, mi viene in mente; tuttavia, nella mia testa deviata lei non è altro che un ricordo malato, lontano, di una come tante. Una sera di noia. Lei è la mia vergogna, il teatro che mi sta stretto e non lo sento nella pelle e  non parla realmente di me, la sensazione di smarrimento nel non trovare uno scopo nella vita. Lei, anzi, io, non sono nessuno. Io sono i miei tentativi andati storti, le prese in giro dei ragazzi a scuola, la delusione di mio padre per cui non sarò mai abbastanza nemmeno conquistando il mondo, che vuole per me una vita fatta di numeri. Sono la fede rinnegata di mia madre. Sono quel malessere diffuso, che come una metastasi senti solo quando è tardi, quando ti ha inghiottito. Mi dispiace: non sarò mai come volete voi e fingo che non me ne importi nulla. Ostento trasgressione per farmi forza, come se mostrarmi ostile a prescindere mi facesse sentire meno disprezzato. Ho cercato di essere abbastanza, mamma e papà, di non deludere da subito le vostre aspettative; la verità è che il mondo mi fa paura e non rifiuto tutto ciò semplicemente perché la routine mi annoia, ma perché mi uccide l'anima. Aggredisco per difendermi, vi distruggo per salvarmi da voi che non avete voluto capire.  Un lavoro di numeri mi fa paura; l'ostilità della gente che incontrerei su quel cammino, mangerebbe quel po' di umanità rimasta in piedi. Vorrei avere le risposte in modo che nessun altro soffra per le mie stesse domande, perché non debba affrontare  un inizio di esistenza così triste, fragile, precaria. Perché, un posto per me sembra non esserci mai e sbatto come un pipistrello su tutti i miei errori. I numeri mi spaventano perché sono impersonali e non capiranno mai la mia storia, né cosa sto provando... e non servono a niente. Non mi salveranno. Mai colmeranno la mia voragine, il mio disperato bisogno d'approvazione, di calore umano. Mai cuciranno le mie ferite. Di numeri me ne bastano solo sette: solo le note possono capire. Le anime degli altri non le incontri da dietro una scrivania guardandole dall'alto in basso, con cipiglio; poi si chiudono a riccio e non le vedi più. Le incroci solo quando gli dai in pasto il tuo dolore. 
Sarà la mia sofferenza pura, angosciante, priva di risposte al punto tale da spezzare il più lacerante dei pianti, a penetrare crudelmente negli altri. Il mio sanguinare a cuore aperto li farà sentire amati, come se mi straziassi solo per loro e capiranno. Più di mio padre e mia madre che mi hanno fatto sentire condannato, rinnegato pur volendomi aiutare, “salvare”, gli estranei sapranno capire. Chi non ti conosce, non avendo aspettative, amerà ciò che saprai offrirgli, senza forzature. Ti amerà per quello che sei.
Spero solo che l'affetto di chi non conosco basti a cambiare le sembianze di quelle schegge di vetro rotte, opache a cui sono ridotti i miei occhi. Voglio sentirli pieni di qualcosa. Finalmente vivi.

martedì 9 luglio 2013

La stanza rossa.


Era una stanza completamente rossa. Insonorizzata. I cuscinetti scarlatti a rivestimento delle pareti mi facevano sentire spaventosamente sola e abbandonata: da lì non poteva udirmi nessuno. Nemmeno ce n'era bisogno: le mie urla mancavano di forma e colore, faticavano ad uscire, coperte dall'oscuro ticchettio di un orologio. Come se una bomba dovesse esplodere da un momento all'altro. Inesorabile conto alla rovescia verso la fine.
Avrei voluto essere pazza per non sentire: non quel sentire con l'orecchio che possono ottenere tutti; ma sentire inteso come provare. Avrei solo desiderato essere padrona di me, dei miei pensieri, fare in modo che convulse scosse non si abbattessero sul mio esile corpo strappato. La stanza era così inquietantemente rossa. A volte era vuota ad eccezione di me, a volte c'erano oggetti strani, angoscianti, ostili che uscivano fuori all'improvviso. Se cercavo di spostarmi, di liberarmi dalle sabbie mobili in cui mi ero impantanata, se solo cercavo di pensare di uscirne, il pavimento si allagava di sangue e l'oppressione cresceva. Ciò che più mi terrorizzava era la veridicità, la familiarità di quell'orrore; mi avrebbe martoriata a vita. Più mi divincolavo dai tentacoli dell'angoscia, più mi allontanavo dall'Angolo Buio, più il liquido rosso, vivo, cominciava a sgorgare a rivoli dalle pareti. Cercavo qualcosa di rassicurante; una bambola di pezza da toccare, ma ovunque mi voltavo si riempiva di cose apparentemente normali, che tutte insieme creavano inquietudine: sedie rovesciate, ghigni di pagliaccio, lame, chiodi. L'unico oggetto che sembrava assomigliarmi, togliermi per un po' la sensazione di estraneità, era una delicatissima rosa senza petali, fatta di spine scarlatte. La stanza si stava allagando e non volevo affogare, mi dimenavo strozzandomi e tossendo, pur non sapendo nuotare. Devo tornare nell'Angolo e non muovermi più. Non posso occupare tutta la stanza. Troppo tardi. L'anfratto di terra sicura era scomparso. L'angoscia, la paura di morire mi spaccava da dentro. Frantumava il mio respiro, lo tranciava come un sadico colpo d'accetta. La falce era sempre più vicina e non potevo scappare. Sotto i piedi, nella carne delle piante, un tappeto immenso di chiodi.
Gli oggetti galleggiavano nel sangue che si alzava a non finire. Pesanti s'incastravano nelle mie costole pungendo, straziando. Dolori lancinanti mi raggiungevano ovunque, tagliavano senza ricucire. I miei respiri, ridotti a poche boccate di disperazione. Il mio sangue si aggiungeva al sangue, il cuore pompava più forte per recuperare. Il cuore ci prova sempre, finché ne ha le forze. Tutto si faceva sempre più rosso e nero, ombre scarlatte mi offuscavano la vista. Fumo che si mangiava gli occhi, la stanza che si faceva un vortice che oscillava, cadeva a pezzi, si sgretolava.
Poi ci fu il suo sguardo; un'allucinazione di occhi azzurri, puri come il più soave dei Paradisi, che mi gelarono e scaldarono l'anima allo stesso tempo. Una voce. La sua voce.
<<Ti fidi di me?>> Chiedeva. Imperava a me che non riuscivo più a respirare e inghiottivo emoglobina.
<<Mi fido di te.>> Riuscii a rispondere in un lampo di lucidità.
Un mulinello mi trascinò; roteando fui risucchiata verso un'immensa voragine nera. Un pozzo ostile, sconosciuto. Una mano, la sua mano, uscita fuori dal nulla mi scaraventò con violenza in quella ferita di morte. Sbatacchiando tra le pareti, precipitavo spaventata in attesa di schiantare.

La stanza era diversa: alle pareti non c'era appesa la paura. La luce si gettava a piombo dalle finestre per cercarmi, colpirmi. Mi colpiva e non sentivo dolore. Il sudore freddo mi ghiacciava la fronte, mentre stormi di uccelli infestavano il cielo con canti di gioia. La mia stanza azzurra. Lo abbracciavo con tutta la voglia di vivere che mi scorreva nelle vene, senza poter spiegare. Lui stringeva più forte e venivo puntualmente  investita dal suo profumo.
<<Ti è successo di nuovo, vero?!>>
Annuivo terrorizzata al solo pensare che sarebbe accaduto infinite altre volte; si sarebbe ripetuto il tutto in una replica senza fine.
<<Non devi avere paura. Quando ti rinchiuderai lì dentro, ti salverai trovando il coraggio di cadere.>>

martedì 2 luglio 2013

Loud Like Love. Intervista ai Placebo.

Bene, ragazzi. Siccome il fronte italiano tace, ho tradotto con tutto il mio sudore (e col google translate) una loro recente intervista che gira in altre lingue per il web. Eccola qui, tutta per voi. Vi prego solo di perdonare la mia totale incompetenza nelle traduzioni.... e vi auguro una buona lettura!

PLACEBO

Riversato nel cuore


Quattro anni dopo Battle For The Sun, i Placebo tornano al top della forma con Loud Like Love, il loro settimo album, indie e molto moderno, durante le mancanze di amore in una semplicità commovente. Più sensibile che mai, la band ha fatto l'onore di darci la prima intervista dopo la creazione di questo gioiello di rock alternativo.

I Placebo sono tornati l'anno scorso per un concerto particolarmente intenso al Rock en Seine. Lei sembrava provare un gran piacere sul palco quella sera ...
BM: Penso che la nostra energia sia stata alimentata dal processo creativo in cui eravamo immersi in quel momento. Si è svolto in un momento in cui stavamo lavorando sulle canzoni per l'EP "B3". Al momento siamo arrivati ​​in studio per registrare il solo ed unico singolo, solo una canzone. Poi abbiamo pensato che i fan vorrebbero sentire di più, è lì che l'idea del PE è venuto. Mentre eravamo in studio di registrazione per "B3", l'idea di lavorare su un album intero si è insidiata nella nostra mente. Spontaneamente, stavamo già scrivendo Loud Like Love. E 'nel cuore di questo vortice creativo del Rock en Seine che si è verificato. Inconsciamente, la nostra prestazione è stata influenzata da tutte le cose buone che erano in corso in studio. In passato avevamo premeditato tutto, ma per la prima volta tutto è venuto naturalmente. I Placebo sono diventati una specie di animale selvatico, voglio dire, che ora seguiamo il nostro istinto. Dà una nuova dinamica e rende le cose più emozionante. Ed è normale che sia in Francia, questo paese è come la nostra seconda casa.

Stefan poco prima di essere sul palco,  ci hai detto che eri molto nervoso per il Rock en Seine concerto.
SO: Sì, ma è molto bello sentire questo nervoso prima di salire sul palco. Anche oggi, ho ancora quella stessa palla nella pancia che sentivo al tempo del nostro primo show in un piccolo bar.
BM: Io stesso, ho anche un sacco di ansia prima di un concerto. Voglio dire, anche oggi per questa intervista, io sono estremamente nervoso. Come ha detto Stefan, è uno stress sano, significa che abbiamo ancora un appetito per il rischio, non prendiamo le cose per scontate, ma invece ci doniamo totalmente in ciò che facciamo. Noi non siamo invincibili, ogni giorno trascorso nei Placebo è una sfida e questo è ciò che ci spinge ad andare avanti. Senza la palla al nervo, non ci sarebbe più questo senso di urgenza che caratterizza la nostra musica.


FOCUS NELLA MUSICA
"B3" suona molto diversamente da "Loud Like Love." Dovremmo vedere questo EP come una parentesi sperimentale?
BM: In generale, scriviamo nuove canzoni con l'idea di non ripeterci. E 'in questo contesto che abbiamo fatto "B3", vale a dire cercando tutti i mezzi per evitare di fare il gioco di automazione e di dimenticare le nostre vecchie abitudini. E 'un modo per riscoprire noi stessi, per sorprendere noi stessi.
SO: Questo EP ha cambiato il nostro modo di guardare la nostra musica, e certamente influenzato la scrittura di "Loud Like Love", aprendo nuove prospettive ...
BM: E 'molto strano per noi, perché questa è la prima intervista che diamo di questo album e non abbiamo ancora analizzato il processo. E 'molto fresco nella nostra mente, è difficile prendere una certa distanza ... Non abbiamo intellettualizzato "Loud Like Love", stiamo cercando di capire che cosa ci ha portato a concepire questo album. Forse potresti aiutarci (ride).

"Loud Like Love" è stato registrato a Londra, dove avete registrato "Meds". Cosa ti ha spinto a tornare lì?
BM: lo studio RAK è un posto molto speciale, è un po 'come fare un viaggio indietro nel tempo. Non ha nulla a che fare con gli altri studi professionali, che sono spesso eleganti e lussuosi. Ha uno spirito rock'n'roll, molto anni '70. C'è un po' un disagio radicato.
SO: E 'come se il posto non fosse cambiato dalla sua nascita nel 1976.
BM: E 'più facile concentrarsi interamente sulla musica senza essere distratto da qualcos'altro. Ma se siamo tornati lì, è soprattutto perché non abbiamo mai trovato un luogo che abbia una sala per registrare le parti di batteria.
S.F: E 'incredibile, ci sono il legno e lo spazio ... il mio strumento suonava come nessun altro!
B.M: E 'qualcosa che abbiamo imparato con l'esperienza. Trovare un posto dove la batteria suona bene è essenziale, ci spinge a dare il meglio. Questo è quello che io chiamo un trampolino di lancio per l'ispirazione (ride).


Giovane e innocente
Su "Loud Like Love", c'è questa speciale sensibilità indie che c'era nel vostro primo album, ma con un suono moderno.
BM: Penso che il nostro produttore Adam Noble, ci abbia aiutato a trovare la nostra essenza. Lui è un fan dei Placebo e se lui non l'ha detto chiaramente, penso che voleva fare il tipo di album che ridefinisce la carriera di una band. Egli veramente ci ha spinto a mettere in evidenza i nostri punti di forza, i nostri campi molto speciali per metterli insieme nel modo giusto. E 'difficile da descrivere, ma lui ha restaurato una forma di sinergia all'interno della band, tanto questa registrazione è stata un'esperienza incredibilmente positiva. Non è stato lavoro, solo passione. Mi ricordo che ogni notte nel taxi che mi ha portato a casa, sono rimasto stupito dal fatto musica ancora mi dà i brividi. Alzarsi la mattina per suonare, quanto siamo fortunati! La magia è ancora lì ed è quello che mantiene la nostra giovinezza e la nostra innocenza vive.
SO: E 'difficile analizzare il tutto, ma, nel mio cuore,  sento che "Loud Like Love" è l'album che i Placebo hanno sempre cercato di fare. E 'davvero completo e può essere quello che ci aggrada, nel senso che non abbiamo ricevuto alcuna influenza esterna. Suona come i Placebo e questo è quello di cui sono il più fiero. Per fare un confronto direi che i Placebo erano  un corpo in attesa di trapianto, e Adam Noble sarebbe l'ideale del corpo. "Loud Like Love" è la prova che il trapianto è andato alla perfezione, non c'era il rifiuto, ma totale assimilazione da parte dell'organismo. Lui ci ha perfettamente capiti e ci ha portato dove dovevamo andare.
BM: Può avere qualcosa a che fare con la sua età, perché per la prima volta abbiamo lavorato con un produttore più giovane di noi. I nostri produttori precedenti erano persone di un'altra generazione che sono cresciuti con registratori a cassette e tecniche antiche. Così sono stati costretti a usare ProTools e altre tecnologie. Con Adam, è stato il contrario, ha imparato a lavorare con i computer, sa esattamente come gestirli. Egli ci ha spinto a fare cose che non abbiamo mai fatto prima, come ad esempio utilizzare i nostri telefoni cellulari e tablet come i nostri strumenti. E 'così rinfrescante per scoprire come diventare figli di nuovo (ride).


Un gruppo di hippie
Parliamo di "Loud Like Love", la canzone di apertura è immediatamente indicata come uno dei nuovi classici della band.
SF: E 'venuta da sè, molto facilmente, come se si è scritto. Eravamo in Spagna, nel profondo della notte, tutti nudi, inceppati e cercavamo di trovare una buona linea di chitarra ... Abbiamo avuto scorci di "Loud Like Love." Portati dall' eccitazione, abbiamo finito la canzone il giorno dopo.
BM: C'è stata una vera coesione tra noi, un'ormai molto rara alchimia in cui ogni membro della band ha la stessa visione e va nella stessa direzione, senza parlare. E 'veramente la canzone che ci ha scelto, e non il contrario. Ha influenzato l'album e ci ha indicato la direzione in cui abbiamo dovuto andare.

Il tema dell'amore, in tutto l'album, viene da quella direzione?
B.M: Sicuramente. Ma questi non sono dieci brani a tema "I love you baby". "Si tratta di un amore strano e una celebrazione di cuori infranti, soprattutto negli ultimi brani dell'album. Avevamo bisogno di un sacco di coraggio per parlare apertamente di amore. Non vogliamo chiuderci in luoghi comuni di questo genere. Ma dietro i vestiti scuri, penso che non siamo altro che un gruppo di hippies (ride)!Puoi utilizzare tutto il nero che vuoi, non puoi nascondere per sempre la tua luce interiore.

Alcuni titoli sono molto movimentati, "Hold On To Me", in particolare ...
BM: Questa canzone ha a che fare con l'assenza di amore e la reazione di un essere a ciò che può essere chiamato il desiderio umano. Il narratore utilizza la  prima persona e nel mezzo della canzone, ci sono gli archi   che vengono fuori dal nulla. Si tratta di una trasformazione, si entra nel regno spirituale, come se il narratore fosse un tutt'uno con l'universo e l'umanità, consapevole di essere parte di qualcosa di molto più grande dei suoi desideri. E 'un modo per me di dire che l'amore trascende l'essere umano.

E 'molto buddista ...
B.M: Beh ... Sì, hai ragione. Il Buddismo ha avuto una forte influenza sul mio modo di pensare ... E mi ha spinto a vedere le cose da un'altra prospettiva. Congratulazioni, hai ragione, è vero,  vi è un vero e proprio collegamento tra il buddismo e la canzone, che si occupa della ricerca che porterà tutti noi a qualcosa di più importante di tutto ciò che non potremmo mai avere.


Fleetwood Mac VS RADIOHEAD
Il testo di "Rob The Bank" sembra essere un eco di "Follow The Cops Back Home". È intenzionale?
BM: In effetti abbiamo notato che dopo che abbiamo già registrato e mixato la canzone, un mio amico me ne ha parlato per primo. Il tema di "rapinare la banca" è semplice, ma molto profondo. vale a dire: ". Puoi commettere le cose più orribili, crimini e rapine, per quanto ne so poi torni a casa a fare l'amore con me" Non ha nulla a che fare con la recessione, la crisi economica e le rivolte che hanno avuto luogo in Inghilterra. La rapina in banca è solo un pretesto per esprimere un desiderio decisamente sensuale.

Una delle migliori canzoni "Begin The End" è molto progressiva. Si inizia con una certa fragilità e finisce in un caos psichedelico, come se si stava trasformando in un brutto viaggio.
BM: Il collegamento con la psichedelia è interessante, perché la prima versione è stata molto lunga, circa 25 minuti. Era ipnotica. Stefan ha detto che a quel tempo aveva avuto un' esperienza trascendentale. E 'stata una sorta di strana marmellata tra i Fleetwood Mac e Radiohead (ride). Cosa vuoi, il mio primo amore musicale è stato rock psichedelico. Quando ero un adolescente, ascoltavo la Grateful Dead, mentre fumavo (ride). Questa canzone parla del dolore di quando ti rendi conto vostro rapporto è rovinato. Non è più possibile nascondere che questa unione è destinata a una fine e poi inizia l'inizio della fine ... Letteralmente, possiamo dire che il tema di questa canzone è l'accettazione.

Chi è Bosco che hai menzionato nella tua canzone e che si prese cura di te quando eri ubriaco ... ?
BM: (lungo silenzio imbarazzato) E 'difficile, molto difficile rispondere a questa domanda. E 'un testo così personale ... E 'pieno di rimpianti ... Penso che sia la canzone più intima e onesta che abbia mai scritto. La canzone è un modo per offrire le mie sincere scuse a qualcuno ... Sarebbe troppo difficile per me dire di più su di essa, non sono in grado di dare ulteriori dettagli. Non sono mai stato così vulnerabile in una canzone. Con il senno di poi, credo che in epoca "Nancy Boy", negli anni 90, non ho mai pensato che il nostro gruppo sarebbe stato in grado di fare una canzone come "Bosco". E 'così lontano da dove siamo partiti ...