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mercoledì 29 gennaio 2014

Recensione - Quattro etti d'amore, grazie di Chiara Gamberale

Titolo: Quattro etti d'amore, grazie
AutoreChiara Gamberale
EditoreMondadori
Pagine242
ISBN9788804616283
Prezzo 17 

Trama:
Tea ed Erica, due donne completamente diverse, s'incontrano sempre al supermercato e senza realmente conoscersi s'invidiano; rivedono l'una nell'altra tutto ciò che si potrebbe desiderare e perché no: arrivano anche in un certo qual modo a volersi bene. Tutto questo nella loro testa, senza interagire mai.
Tea è un'attrice, recita il ruolo di Lei in Testa o Cuore.  È bella, libera, senza figli e vive con un marito dalla sensibilità fuori dal comune, seppur in costante equilibrio precario. Erica ha due figli, un posto in banca, un marito presente: una famiglia concreta, tangibile, reale. Erica per Tea è la signora Cunningham: la stabilità; Tea per Erica è Tea, l'attrice della serie di cui non può fare a meno: irraggiungibile, di successo, semplicemente fantastica in ogni cosa che dice e fa.
Tra una puntata e l'altra, queste vite scorrono in parallelo, si sfiorano, accarezzano, singhiozzano all'unisono suonando e impastando tra loro le imprevedibili note delle loro esistenze.

Recensione:
Ascoltare sempre il linguaggio del corpo, ho pensato, quando chiudendo l'ultima pagina un brivido mi ha attraversata per intera (lasciando perdere il fatto che qui da me fa freddo). Sì, mi piace. Mi piace, mi piace e mi piace.
C'erano una volta Wendy, Peter Pan e l'Isola che non c'è; c'erano Erica, Michele, Viola e Gu. 
Ma soprattutto: c'erano due donne forse strane, forse no, forse felici, forse insoddisfatte: due vite che si sbirciano attraverso gli scaffali del supermercato; due anime che fiutano, scrutano, assaggiano le sensazioni del carrello dell'altra. Dell'esistenza che non avranno mai, che forse avrebbero potuto anche avere.
Innanzitutto, un enorme inchino allo stile: virgole frenetiche che si rincorrono, fino a morire nel punto. Il grosso della narrazione è così. Virgola virgola e ancora virgola. Poi virgola.  È tutto così scorrevole, per poi impennare, inciampare. L'autrice ha un modo di posare l'anima su carta molto particolare, molto raro, molto suo. Decisamente gradito, ti fulmina fin da subito e pensi: come scorre, come scivola e poi s'impiglia. Come cade e si rialza di nuovo... il suo modo d'imprimere la vita sul foglio è già di per sé metafora di vita.
La semplicità del quotidiano irrompe come un fiume senz'argini e altro non fa che fluire prepotentemente, ma  in modo lento e mutevole. Ogni giorno vissuto nella storia ti conquista, rapisce in maniera inaspettata: proprio mentre rifletti su una banale lista della spesa, piombano i pensieri improvvisi, pesanti macigni lasciati cadere come foglie. Macigni che non ti aspetteresti mai così.
È un libro in cui si ha fin da subito la netta sensazione che il semplice e il complesso siano saldati insieme, inscindibili. Come la realtà, in cui, nel bel mezzo delle astrazioni di cui si ha bisogno per l'anima, si viene bruscamente tirati via da quell'Isola che non c'è: magari verso il sugo che brucia, verso la bimba che dev'essere accompagnata a catechismo. Verso quei banalissimi, piccoli, insignificanti bisogni vitali che rapiscono tempo. Necessari all'uomo, ma danno sempre l'amara sensazione di rubarti tempo. Tempo di vita.

L'introspezione ti aggancia e accompagna fin dall'inizio, rendendo tutta quella normalità in un certo senso anormale. Sono discorsi che dalla superficie dell'esistenza cadono in affondi sorprendenti, concreti, rapaci. Perché no: dolorosi. È un continuo di domande innocenti -cosa compro per cena, chissà se uscirà bene la torta- che si trasformano, si evolvono fino a diventare dei mostri: che persone siamo, cosa stiamo realizzando, chi meritiamo al nostro fianco, dove stiamo andando a finire? L'innocuo si sporca, fino a costringere il lettore a digerire un mondo che non è poi così leggero. Non così rose e fiori.
Quella che si sporca di più in questa storia, quella che a parer mio ci mette lacrime, sangue e passione è lei, il mio personaggio preferito: Tea Fidelibus, donna forte/fragile, comprensibile/incomprensibile, intricata perfino per se stessa, moglie/madre di un Peter Pan cinquantenne; pazza, eppure sana. Testa o Cuore è una serie che ispeziona fin nei minimi dettagli il rapporto di coppia e lo scandaglia in due tempi: prima con le azioni fatte seguendo il cuore, poi mostrando ciò che sarebbe avvenuto se Lei e Lui (i personaggi si chiamano così) avessero agito secondo la testa. Le puntate sono seguite da tutti; ma i problemi di Tea non riguardano il lavoro, bensì Riccardo: suo marito così fragile, instabile, intrattabile ed assolutamente incapace di fornirle certezze. Un eterno bambino, che da bravo Peter la chiama Wendy. Ma Wendy da un po' si sente sola e incompresa. Da un po' Wendy ha deciso di giocare con Anthony: di avere da lui le attenzioni e la passione che il marito non le concede. Ma tuttavia non si riesce a sganciare: perché Riccardo è della sua stessa pasta; perché lui come lei si chiede di che colore è il retro del cielo, e non ha intenzione di rinunciare a quell'universo che solo gli artisti possono capire.
Sdraiati qui, a letto con me, e raccontami una storia. Non ne sai una? Inventala. L'importante è che sia qualcosa che non esiste. Qualcosa che non serve. Qualcosa che mi porti lontana, che ci porti lontane, lontanissime, da tutto questo qui.  
Più o meno pensavo, in quelle notti. 
O forse sentivo: perché mica capivo bene che cos'era, quella specie di colla che all'improvviso mi pareva di avere al posto del sangue. 
Solo da quando ho incontrato Riccardo l'ho capito. 
Era la fiducia incondizionata nelle cose di questo mondo che avevano i miei, che mi trasformava il sangue in colla.



Arrivava amore, insomma. 
Ma le risposte alle mie domande mai.  
Così ho cominciato a cercare altrove: e ogni notte, una volta a letto, andavo lì. 
Il Paese Degli Artisti, lo chiamavo: un posto dove mi bastava chiudere gli occhi e mi trasferivo a vivere. (...) 
A chiunque chiedessi: "Di che colore è il retro del cielo?", mi rispondeva. (...) 
Ognuno aveva la sua idea. Però a quel punto se ne discuteva. 
Tantissimo.
Lampante è l'incomprensione profonda che la brucia, che rovina attimo per attimo, che non le dà un secondo di pace. Un disturbo, un bisogno che le si è piantato dentro fin dall'infanzia e che nessuno ha saputo soddisfare, tranne lui. Lui che la chiama "bamore" perché "amore" è troppo compromettente. Lui, i cui disturbi s'incastrano con i suoi, quasi annullandoli. Però poi Anthony le dà affetto, Anthony la fa sentire donna nel vero senso del termine; non la bambina che deve stare attenta a non crescere, a non accantonare Peter.
La parte irrinunciabile del libro per me sta proprio nello sdoppiamento: quando la Wendy di Riccardo e la Tea di Anthony sono costrette a comunicare, a stilare un bilancio che tuttavia non riesce. Creare un'amicizia che non è possibile. Perché l'amore non è dato da quanto ricevi, nemmeno se sommi tutto l'amore ricevuto. Non è un calcolo esatto, pertanto costantemente in bilico; un dilemma difficile da risolvere, tra quello che si vorrebbe e quello che si ha.

<<Nel senso che io ho un passato particolare. Sai, Tea, prima d'incontrare Riccardo stavo per finire dritta in una clinica psichiatrica. Avevo un mostro, dentro, che mi portava a fare solo cose sbagliate.>> 
<<Così il mostro, anziché avercelo dentro, te lo sei messa accanto? Hai semplicemente dato a un'altra persona la responsabilità di rovinarti la vita, dunque.>> 
<<È già un passo avanti. Fidati.>> <<Ma non sei più la ragazzina disperata che eri, Wendy! Sei cresciuta.>> 
<<Non è vero.>> 
<<Sì che è vero. Se non fossi cresciuta non potresti mica sentirla, la mia voce.>> 
<<Io non crescerò mai. L'ho promesso a Riccardo.>> 
<<Questo non c'entra più niente con l'amore, però. È una dipendenza.>>
La vicenda della signora Cunningham è meno tortuosa per certi versi, ma non la si può definire ugualmente  meno sofferta. Reduce da una rapina nella banca in cui lavora, avrebbe bisogno di staccare, da marito casa e bimbi. Ma il suo lui non lo capisce e non riesce a seguire la sua voglia d'evasione. Non apprezza quel piccolo mondo senza di lui, fatto di serie tv e film che Erica si ritaglia a forza, con l'aiuto di un vecchio/nuovo amico (che purtroppo non è proprio disinteressato nei suoi confronti) e del computer, che funge da finestra aperta sul mondo esterno.

Non che abbia bisogno di tenere a mente chi sono e dove abito, figuriamoci. 
Ma ogni tanto mi sembra di andare non so come dire: sottovuoto, ultimamente. 
Sento proprio l'aria che mi manca e il corpo che si mette a galleggiare, per conto suo, dentro una specie di sacchetto. 
E fuori dal sacchetto tutto il mondo. 
Da una parte è una sensazione fantastica, nessuno mi può disturbare mentre sono lì, sparisce l'ansia, tutta, i pensieri non stanno più in fila per uno, schizzano via per conto loro, fanno giri assurdi, poi prendono a frullare forte, fortissimo, e vanno così veloce che si mischiano fino a diventare una cosa sola: niente. 
Però dall'altra è insopportabile, ieri in banca, per esempio, mi ha costretto a rifare un calcolo semplicissimo per quattro volte, perché proprio non ci stavo con la testa. E mi fa essere troppo nervosa con i bambini, soprattutto con Viola. 
Passa solo quando chatto con Davide Morelli: che persona meravigliosa è, era dai tempi di Giulia Fedrizzi che non riuscivo a parlare con qualcuno anche di argomenti, come dire, un po' particolari. 
E passa quando faccio l'amore con Michele.
Due donne dalle vite completamente differenti, legate da un supermercato; dalla spesa altrui, dalle proprie insoddisfazioni.
Pagine delicate in cui la vita sembra così semplice, ma non lo è e continua ad incresparsi ad ogni step. Pagine da cui emerge una grande morale: l'esistenza che invidiamo, in fin dei conti non la vogliamo davvero. Le nostre insoddisfazioni possiamo colmarle quasi sempre, sforzandoci di essere felici di ciò che abbiamo già.
Una lettura come un cassetto col doppio fondo: stratificata come le donne, che sono sempre iceberg di cui  anche solo la punta è appena percepibile e raggiungibile. Come le donne è così dentro, eppure così fuori dal mondo. Così in superficie, eppure così a fondo.
Una lettura così sporca d'anima, d'introspezione, di colori. Così indelebile, indimenticabile.

lunedì 27 gennaio 2014

Per ricordarci di non dimenticare.

Io c'ero.
No, non c'ero davvero:
lì dentro non ci sono mai entrata.
Ci è entrato il mio vestitino; le mie scarpine
che non sono uscite più.
O perlomeno, non addosso a me.
Ma io là dentro non c'ero.
Quella bambina è morta prima.
Prima di diventare neve,
prima di diventare vento.
Non era la bambina quella che bruciava nei forni; non ero io.
Non ero io nemmeno quella che piangeva quando l'avete tolta alla mamma,
quella che tendeva le manine per tornare a casa,
quella che tremava di freddo,
quella che ha vomitato più volte prima di arrivare,
in mezzo a tutta quella gente; in mezzo a tutti quegli escrementi.
Non ero io quella ammassata insieme agli altri bambini,
insieme a tutte quelle non persone in una camera a gas.

Lì dentro non ci sono entrate persone:
sono morte tutte prima,
vittime e carnefici.
Sono morti tutti quanti

quando hanno perso la loro dignità di esseri umani.

O quando gli è stata strappata via.




sabato 25 gennaio 2014

PLACEBO “20 YEARS” – La Rosa e la Corda e Francesca Del Moro




Titolo: PLACEBO “20 YEARS” – La Rosa e la Corda
Autore: Francesca Del Moro
Editore: Sound and Vision
Prefazione: Teho Teardo
Progetto: Davide Pensavalle
Progetto grafico, impaginazione e design di copertina:
Luigina Di Giampietro
Immagine di copertina: "Loud like your eyes" di Daniele Duò
Consulenza specialistica: Simone Galgano, Chemsonic Placebo Tribute, Edoardo Esposito
Redazione: Valentina Vignoli
Anno: 2013
ISBN: 978-88-901520-1-6
Lingua: ITALIANA
Numero pagine: 200
Prezzo: € 15,00
Genere: biografia / musicale
Come acquistarlo: utilizzando paypal inviare € 15,00 + 2 euro spese spedizione all'indirizzo info@soundandvision.it con la causale "PLACEBO-20YEARS"

Trama: Le avvincenti e sentite parole di Francesca Del Moro traghettano il lettore in un viaggio di vent'anni, che diventa fin troppo breve per chiudere le pagine a cuor leggero. L'autrice riporta le vittorie, le sconfitte, approvazioni e disapprovazioni di una band che nemmeno dopo vent'anni di carriera trova pace, un luogo per sé in quella giungla che è il mondo della musica oggi (soprattutto in Italia, che si fa riconoscere per una certa ostilità).
Senza cadere nella subdola trappola del gossip, traccia un quadro chiaro ed esaustivo delle vite dei componenti dei Placebo che non risulta affatto invasivo. La biografia s'intreccia con le canzoni, con intense analisi di musica e testi, introspezioni da capogiro.

Potete notare la minima parte degli appunti...i fogli in realtà son scritti fronte/retro  (li ho fotografati da un lato solo)

Recensione: 
Dopo la bellezza di 8 pagine (pagine, non facciate) del blocco d'appunti, posso tranquillamente affermare che mi è piaciuto dalla prima riga. Questa biografia è pura arte che s'impasta ad arte: è lo scontro tra la corrosività di un gruppo che ha fatto la storia dell'alternative rock e la penna intrisa d'anima di una scrittrice che con infaticabile passione ha scavato nelle crepe.
Una piccola precisazione prima del mio giudizio specifico: è un prodotto che prima assolutamente non esisteva; l'ultima biografia dei Placebo risale a una decina (?)  di anni fa ed è persino fuori commercio da millenni. Mentre nelle librerie italiane impazzano in lungo e in largo libri su libri dedicati ad artisti che se lo meriterebbero molto meno.  E' un problema di cui mi rammarico a morte... ma la vita va avanti e questo scritto è la dimostrazione che nel mondo non vince sempre l' "ignoranza" (per fortuna).
Si parte da una prefazione in cui Brian Molko, questo spacca-chitarre viene dipinto finalmente come un essere umano, come qualcosa di più di un incompreso che gioca a fare l'incompreso e che manda l'universo a quel paese senza un senso logico. Un ritratto che, in quello che definirei il punto saliente mi riporta a un Robin Hood che, seppur in modo ruvido prende le parti di chi si trova in difetto. Un Brian forse scomodo ai più perché la gente tante volte non apprezza questa scarna sincerità, così essenziale da ferire a sua volta. Mi riferisco in particolare a ciò che racconta  Teho Teardo riguardo la loro apertura di un concerto a Oporto:
Accadde che alla fine del primo brano Scott ringraziò il pubblico dell'ottima accoglienza, ma lo fece in spagnolo e non in portoghese. Calò immediatamente il silenzio, ma lui non capì. Nemmeno io capii. Alla fine del brano successivo, Scott ripeté "gracias" e cominciarono a partire le prime invettive contro di noi. L'apocalisse si manifestò alla fine del terzo brano, al quale era seguito un altro ignaro "gracias". (...) All'improvviso Brian ci raggiunse sul palco, prese il microfono e disse alla folla portoghese che era assolutamente priva di senso dell'ironia  e allora poteva anche andare a quel paese.
Già dalla prefazione esce fuori quest'immagine di un personaggio complessamente umile: discorso ampiamente sottolineato ed approfondito nelle pagine a seguire.
Si entra da subito in ambienti oscuri, tane di lupo, racconti di un'infanzia contornata da un'adolescenza atrocemente ostile, da cui quasi si vorrebbe sfuggire per non morire. I primi capitoli sono soprattutto quelli in cui avverti le tossine, l'avvelenamento placebico. Quel morbo sottile, vestito che sta stretto e non ci si può strappare di dosso per respirare. Ogni fan della band non scopre in quelle parole solo le origini di Brian, ma di se stesso, della sua passione per una musica che non è compresa da tutti. Per riassumerlo sinteticamente, sembra che  attraverso l'adolescenza del cantante si spieghi perché non poteva esserci un termine migliore di Soulmates per definire i fans del gruppo, come se quel virus partisse per tutti da lì: dai dolori lancinanti inflitti dalla vita, dalla difficoltà a continuare nonostante si abbia la voglia di mettere la testa sotto la sabbia e basta. Senza troppi peli sulla lingua, Francesca coglie in pieno il nocciolo della questione, del perché non tutti si lascino abbracciare da un cocktail musicale così difficile da smaltire: le persone che temono di guardare la propria anima allo specchio, possono scoprirsi  facilmente terrorizzate davanti a un'introspezione così intensa. Pura. E' quell'arte che tira fuori tutto e non lo puoi più nascondere da nessuna parte tanto diventa ingombrante e minaccioso. Liquidare tanta percezione a un "che schifo" diventa fin troppo semplice. L'autrice ha avuto sensibilità. Ha saputo leggere tra le righe di un'esistenza tormentata e di difficile lettura.  Non è facile sbrogliare la matassa in una personalità così complessa e contraddittoria come quella del frontman, di cui spesso s'individuano i limiti e non le potenzialità. Molti non sanno vedere in essa la chiave per fuggire da un mondo crudele, attanagliante, opprimente.
Viene spiegata la difficoltà nel proporre un'alternativa così diversa dal classico tipo di rock macho/chenondevechiederemai. Entra in campo una debolezza allucinata, che diventa forza; una ricorrenza ossessiva di spettri e anti-eroi. Una debolezza a cui si aggiungono gli attacchi, le strazianti interviste psicanalitiche (molte sono riportate e ve ne riporto un pezzo a mia volta), gli affondi nella droga, nel buio.
La gente mi vede molto sicuro di me ma io mi sento spesso a pezzi. Sono molto fragile. Riesco ad andare avanti attraverso le canzoni. Non m'interessa l'arroganza, m'interessa la fragilità. (...) Penso di non essere stato capito come scrittore di canzoni. Tutta la bile, il vetriolo e la cattiveria che la gente pensa che io riversi sugli altri sono in realtà rivolti dagli altri verso di me. Io sono una persone estremamente autocritica.
Non ci si limita tuttavia a un lavoro introspettivo proiettato sui componenti: l'autrice offre descrizioni di brani dalla spettacolarità intensa, azzeccata. Onesta da bruciare gli occhi, sensibile da far tremare le ginocchia. Se non fossi già una fan della band  e leggessi questa biografia, dalle sole parole di Francesca probabilmente lo diventerei.  Parole che sezionano con precisione millimetrica neanche avessero il mirino, spaccano in due l'emozione e la immortalano lì. Una farfalla sotto vetro. Ci si ritrova a chiedersi cosa sia e ci viene risposto senza tanti complimenti: "prendi, è un gelato al veleno". Trovi nelle frasi qualcosa che ti accende, ti lascia sprofondare in un'immedesimazione più unica che rara, in cui riesci a percepire persino le più piccole sfumature, quelle importanti che smantellano certezze fittizie.
Doveroso a questo proposito, lasciarsi mordere dal fascino decadente di Twenty Years, da Francesca espresso così:
Acrobati, anziane ballerine di cancan e mangiafuoco portano avanti le loro esibizioni al ralenti con lo stesso sguardo dolente dei musicisti. In fondo lo spettacolo deve andare avanti, sia per loro sia per i Placebo. Il video sottolinea magnificamente il significato della canzone: l'idea di non essere altro che commedianti, impegnati in uno spettacolo dalla culla alla tomba, cui si contrappone la necessità di concentrarci su ciò che conta nella vita, su qualcosa che vada oltre le apparenze. Il testo è una riflessione sul passare del tempo e sulla mortalità e un invito a concentrarsi su ciò che di positivo abbiamo oggi: l'amicizia, la generosità, la vicinanza, tutte le cose che ci rendono davvero umani.
Altrettanto appassionato, trascinante  è il modo in cui viene resa la parte tecnico/musicale: essa diviene un magico gioco, un delicato  equilibrio in cui la terminologia del settore si fonde sapientemente con la poesia, che inevitabilmente ne colora il risultato già di ottimo livello. In certi passaggi sembra quasi di sentire la canzone tramite la semplice lettura, di poterla sfiorare, catturare in un istante, accarezzare. Eccovi un breve cenno a proposito di Without You I'm Nothing, canzone spettacolare di suo, la cui descrizione fa letteralmente capitolare.
Con la traccia numero cinque si tocca il momento forse più alto dell'album e uno dei picchi indiscussi della produzione dei Placebo. La title-track è un prezioso gioco di suoni di chitarra che inizialmente sembrano cadere come foglie morte trasportandoci in una dimensione rarefatta. Fin da subito ci si sente afferrare da una stretta che non ci lascia fino alla fine.
La carta vincente del libro risiede nell'emotività: nella capacità di collegare empaticamente i Placebo con il lettore, quasi fungesse da conduttore, canalizzatore di un'energia che non lascia vie di scampo. E' una risposta decisa a quanti disprezzano la band; una difesa espressa tramite trasparenze. Una risposta a chi giudica senza conoscere ciò di cui parla,  senza comunque concedere troppe indulgenze alla band laddove non è necessario.
La scrittrice lascia ai fans nell'ultimo capitolo la possibilità di offrire le proprie impressioni tangibili, le emozioni. Concede ai Soulmates di rispondere una volta per tutte alla domanda: perché i Placebo?
Non credo che "La Rosa e la Corda" sia indicato a un pubblico ristretto, di nicchia. Per apprezzarlo basta la voglia di guardare in faccia il dolore, di spogliarsi, essere onesti una volta per tutte con se stessi  e accettare di sentirsi maledettamente vulnerabili; perché no, se è necessario anche di provare il terrore di ciò che si trova in fondo alla propria anima. Per amare un libro così basterebbe la volontà di accettare la precarietà dell'esistenza; la fragile instabilità dell'essere umano.
 

Parla l'autrice, Francesca Del Moro

Foto a cura di Valentina Gaglione
Ciao Francesca, grazie per la disponibilità e soprattutto per aver finalmente dato ai fans italiani i mezzi per conoscere al meglio una band che divide da sempre l'opinione pubblica.
Ricordo ancora quando anni fa cercai disperatamente una biografia dei Placebo e in tutta la libreria li conosceva un commesso solo, per poi fare spallucce e aggiungere dopo una lunga ricerca che l'ultimo scritto su di loro era fuori commercio da un pezzo.
Oltre la volontà di riempire codesta spaventosa lacuna letteraria (imperdonabile oserei dire) e di ringraziare questo gruppo straordinario, cosa ti ha spinta in quest'impresa?
Qual è stata la molla, la ragione più profonda che ti ha fatta scattare, per convincerti ad uscire dal guscio e provare?

Penso che il nostro naturale istinto di esseri umani ci renda protettivi e pronti a difendere chi amiamo. Man mano che approfondivo la conoscenza di questo gruppo cercando di recuperare il tempo perduto (mi sono realmente interessata ai Placebo solo a partire dal 2009) provavo un crescente fastidio verso le parole sprezzanti e strafottenti usate contro di loro da buona parte della stampa di settore e anche da molti appassionati di musica. Così è nato in me il desiderio di far sentire una voce diversa.

Brian Molko: questo Oscar Wilde dei nostri tempi, nipote d'arte di Bowie nonché una guida per i reietti. Questo poeta maledetto che per molti richiama L'Albatros di Baudelaire. Poco capito specialmente in Italia, ricordato soprattutto per aver rotto una chitarra a Sanremo e nient'altro. Pensi che il nostro bel paese sia finalmente pronto per lasciarsi contagiare dalla loro magia, o che debba in qualche modo sbloccarsi da troppi pregiudizi?

Non credo che il nostro Paese abbia particolari pregiudizi. La storia della musica, come quella di ogni altra forma d'arte, è un susseguirsi di mode. I Placebo hanno conquistato l'attenzione internazionale nella seconda metà degli anni 90 e l'hanno perduta, per motivi che nulla hanno a che vedere con il loro talento. La ricezione superficiale della loro musica non è un fenomeno soltanto italiano e difficilmente riusciranno a riconquistare il rispetto che meritano. L'ultimo album, “Loud Like Love”, tocca a mio parere la vetta della loro arte e ciononostante è stato perlopiù stroncato e messo in ridicolo dalla stampa. La band stessa non è esente da responsabilità: scelte sbagliate in merito ai singoli e ai video, la partnership con la Mercedes, i giochini a premi per i fan e gli innumerevoli espedienti commerciali da tempo offuscano la loro immagine di artisti.

Presumo che non ti opporresti affatto se io definissi la loro musica arte. Qual è a parer tuo il requisito fondamentale dell'arte per essere definita tale?

È una di quelle domande a cui è impossibile dare una risposta, un po' come quando ti chiedono di definire l'amore. Posso solo dire che cosa personalmente cerco nell'arte. Come direbbe Baudelaire, un cuore messo a nudo. In un'intervista ai Placebo ho trovato la bellissima definizione di “specchio puntato sulla condizione umana”. Un'arte di questo genere richiede prima di tutto il coraggio di puntare lo specchio verso se stessi, cosa che loro riescono a fare benissimo.

Basta un colpo d'occhio alla realtà di ogni giorno per rendersi conto di quanto l'arte e il dolore si appartengano a vicenda e siano strettamente connessi tra loro. Oserei quasi dare del rivoluzionario a chi ha provato a portare in campo artistico idee felici. Pensi che i Placebo esisterebbero ugualmente sotto un altro nome, sotto altre forme, se non ci fosse la sofferenza, quella voglia costante di sopprimersi e sparire? E l'arte invece, può davvero esistere senza dolore?

Il dolore fa parte della vita, come dice Brian Molko in un'altra intervista, e pretendere di non soffrire in certi momenti è una forma di autosabotaggio. È la vita che non può esistere senza dolore. Quando sei felice, tendi a essere assorbito dalla tua felicità, quando soffri cerchi aiuto e l'espressione artistica rappresenta una consolazione e al tempo stesso una reazione positiva. I Placebo danno da sempre il loro meglio nel portare alla luce le contraddizioni e gli aspetti più difficili da accettare dell'esistenza. Le cose che ci fanno soffrire, che ci provocano vergogna e che tendiamo a nascondere a noi stessi prima ancora che agli altri. Il loro è un lavoro di autoanalisi che mira a far emergere il dolore per poi consolarlo, e come tale non può prescindere dal dolore stesso.

Tra le pagine è ricorrente l'aggettivo “impietoso”, atto a descrivere le stroncature brutali (decisamente frettolose, questo lo aggiungo io) fornite talvolta dalla stampa musicale verso degli album validi; tanto che presenti un Brian frustrato da queste situazioni, che vorrebbe per il gruppo il posto che merita nel panorama musicale. Tuttavia sei riuscita a restare sobria e imparziale, senza sbilanciarti verso un tentativo di redenzione, di compensazione. Quanto ti è costato prendere distanza dal tuo entusiasmo, dalla tua posizione di fan?

Non credo di essermi sforzata, a dire il vero. Il fan non è necessariamente una persona priva di lucidità, anzi è generalmente portato ad aspettarsi il massimo dall'artista che ama e a volte capita che venga deluso. Così è stato per me in certi casi, e mi è sembrato opportuno anche esprimere delle critiche. Era inoltre mio obiettivo fornire un quadro esaustivo della carriera della band e non potevo passare sotto silenzio la sfortuna critica e i passi falsi nella loro storia. Non volevo dare l'idea che ci fosse una selezione in chiave positiva, ma l'intento di redimerli non viene meno: l'essenziale era analizzare la loro opera facendone emergere l'impatto emotivo nonché l'attenzione, la cura, la stratificazione di significati che vi stanno dietro.

L'ultimo capitolo del libro si chiama “Soulmates”: parola complessa, dal significato importante, utilizzata per indicare i fans dei Placebo. Questo capitolo è interamente dedicato a loro; alle motivazioni che li spingono ad ascoltare la loro musica, ad accorrere ai concerti. Sono pagine intrise d'affetto, di emozioni individuali che si fondono in una cosa sola. Cosa ti aspettavi dai Soulmates prima e dopo l'uscita del libro? Sono stati all'altezza di un nome così importante che indica un'appartenenza diversa, più profonda?

Sono stati assolutamente all'altezza e mi hanno dato quello che mi aspettavo. Una chiusura perfetta per il libro. I contributi che ho ricevuto si caratterizzano per profondità e cura dell'espressione e delineano un perfetto ritratto della band. Ècome se nei capitoli precedenti io avessi descritto il “come” e nel capitolo finale venisse fuori chiaramente il “cosa”. Il risultato, il vero valore della musica di questo gruppo, che è quello che li rende unici: la loro sincerità, la vulnerabilità e la capacità di scendere a fondo dentro di sé e al tempo stesso dentro chi li ascolta. Personalmente mi sono sentita supportata fin da subito in questo progetto e l'amore spontaneo e disinteressato con cui i fan mi stanno inondando man mano che leggono il libro mi ha già ripagata di ogni sforzo.

Questa domanda -magari con differenti termini- è stata proposta anche a Brian. Lui ha sempre risposto di essere semplicemente un coglione che fa musica, senza rivendicare diversi intenti. Tu invece (anche grazie a ciò che ti hanno fatto provare i Placebo) hai mai pensato che questo libro -come del resto anche gli altri tuoi scritti- in quanto parla di una reazione alla sofferenza e di persone che grazie all'esempio della band sono riuscite a rinascere, potrebbe salvare qualcuno, aiutarlo a sentirsi meno solo, anzi parte di un sistema meno brutale da quello giornaliero in cui siamo tutti ingranaggi?

Come Brian, ho cominciato a scrivere per cercare di venire a patti con me stessa, usando l'arte in chiave terapeutica e cercando al contempo di trasformare il mio dolore e il mio senso di inadeguatezza in qualcosa che fosse bello, che mi riscattasse. Anche per me l'essenziale era pormi di fronte a uno specchio che mi rivelasse interamente e vincere la paura di guardarmi per come ero. Mi sono poi resa conto che la mia scrittura poteva essere un sollievo per gli altri, per quelle persone che magari provavano le stesse cose e non avevano il coraggio di accettarle. Ho sempre scritto poesia per me stessa e l'impatto sugli altri è stato una conseguenza, una piacevole scoperta. Potrei dire a mia volta di essere una cogliona che scrive per sentirsi meno cogliona, non certo per salvare qualcuno. Ma se riesco a trasmettere qualcosa, ne sono felice. Il libro sui Placebo invece è stato scritto unicamente per loro, per celebrare e valorizzare la loro arte. È un atto d'amore.

I Placebo hanno letto il tuo libro e puoi fare una sola domanda post-lettura a uno solo di loro. Chi scegli, perché e cosa gli chiedi?

Scelgo Brian perché lo amo non solo come musicista ma anche come poeta e perché sua è l'umanità che coraggiosamente si rivela nelle opere dei Placebo. Buona parte della magia di questo gruppo sta nella sua voce e nel suo viso, che riescono a esprimere le minime sfumature di qualunque emozione. Gli chiederei, banalmente, come si è sentito leggendomi. Sperando che risponda: felice. 

venerdì 24 gennaio 2014

La tv per bambini è lo Zelig del domani.

Ho avuto un'infanzia difficile. Lo dice il semplice fatto che mia madre quando ero piccola recitava: "Pimpirulin piangeva, voleva mezza mela, la mamma mezza matta gli tira una ciabatta..." -anni dopo mi resi conto che la versione giusta non era esattamente quella-
Il problema in sostanza non è tanto mia madre, quanto il fatto che se si rivendeva l'idea ne ricavava una barca di soldi!

E il nemico non è la Disney, farcita di messaggi subliminali; non è La Pimpa, che prende veridicamente l'idrovolante e va a giocare con un pinguino al polo nord e poi torna per cena, o che guarda l'album di foto di una stella da piccola, o che si perde i pallini per strada quando cammina; no! Non è nemmeno Peppa Pig -il cui secondo film lo vedremo direttamente dal banco salumi- dove la coniglia incinta, per partorire due (solo due? Realistica) coniglietti si reca di corsa all'ospedale, dove trova niente popò di meno che sua sorella infermiera che le fa la domanda da un milione di dollari, mentre osserva quel pancione enorme: "Come mai qui?"  <<Niente, volevo un gelato.>> Le avrei risposto...
Ma no! In sostanza non sono le mirabolanti, assurde -nonché altamente inverosimili- avventure dei personaggi dei cartoni animati a rendere le mie notti insonni... NO! Sono i programmi per bambini: quelli ovviamente scritti da adulti, farciti con vagonate di sarcasmo, tanto che tra un po' ridono più i grandi che i piccoli. Quelle strisce quotidiane che tra una puntata e l'altra sputano fuori l'inimmaginabile. Altro che Real Time! L'intrattenimento adulto del futuro eccolo qui!
La penultima volta ero lì che mi facevo i fattacci miei, quando presumo che insegnando ai bambini a disegnare, un qualcosa di simile a un Muppet spara un titolone da film inventato tipo "L'uomo che disegnava troppo", aggiungendo subito dopo: "un film con Liza PENNELLI!" -sì, avete capito bene...-
Lasciai correre, dopo di che, giorni a seguire, sempre successivamente a una vagonata di assurdità, resto basita per un altro titolone da film: Sette spose per sette capelli -era la puntata delle pettinature: capiteli-
In sostanza, mamme, papà, non stupitevi se vostro figlio non finisce a pronunciare bene la "R", che già vi risponde a tono; quando il sarcasmo viene recepito quasi prima della capacità di parola, si è già belli che fregati! In compenso, quando passerete giornate dietro al pargolo che non si schioda dal suo canale preferito, potrete sempre contare sul messaggio implicito di solidarietà di qualcuno che capisce la vostra posizione e infila tra i dialoghi un monologo comico per voi!

mercoledì 15 gennaio 2014

Rosso Placebo e il self publishing

Lo sento, il suo dolore lo sento, mi uccide.
Delira. Senza forze, senza coscienza bisbiglia a bocca stretta: <<Senza quel sangue morirò.>>
Quella frase sbatte e rimbalza più volte nella stanza; non se ne va. Resta massiccia, pesante come una lastra di ghiaccio. Un'incudine sulla testa.
Gli tengo la mano e capisco meno di lui. Di tanti pensieri non ce n'è uno che mi possa aiutare, la confusione mi soffoca il cervello. “Senza quel sangue morirò”.
Non posso più fare finta di niente, non posso più fingere di non sapere cos'è realmente. Per quanto possa essere assurdo, è l'unica conclusione possibile; anche se non ci voglio credere davvero. Devo riflettere, lo sto perdendo e non lo posso sopportare. Non posso permetterti di sparire.
<<Bevimi.>>
Il suo sguardo spiritato mi fulmina, quasi mi legge l'anima. La trafigge.


Alla fine mi sono esposta: ho deciso di parlarvi di una storia. Una storia un po' strana, un po' d'amore, un po' fantasy, un po' come mi veniva; un po' come m'ispirava l'anima.  
La storia di Alan e Violet.
Sapete, a parte la stranezza, a parte il fantasy, racconto di quell'amore che ti mette i brividi, che non respiri se non lo vedi. Quell'amore che quando non sei con lui ti senti un emerito nessuno, che non fa sconti né calcoli. Quel sentimento che non ti lascia pensare, ma solo agire. E non ti spaventa nemmeno  rischiare ogni giorno la vita, sfidare di continuo la morte.
In un periodo complicato, ostile per i demoni, una ragazzina così piccola (una quindicenne), si mette in testa di fare qualcosa di grande: offrire il suo sangue alla persona che ama per salvarla; anche se è un vampiro, anche se è un maledetto. Anche se questo gioco potrebbe farle solo del male; anche se i vampiri non hanno l'anima e non possono ricambiare a loro volta. 
Ed Alan non può amare... o forse sì? Esiste davvero una redenzione per una macchina di morte, che non può provare emozioni?!
È così che questa relazione straziante, unilaterale prende forma in una città particolare, piena di forze contrastanti, che attende la realizzazione della profezia.
Volevo parlarvene, perché mi sono decisa a mettere in vendita l'ebook ed eccomi su narcissus.me a tentare la fortuna. E speriamo bene!