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sabato 29 dicembre 2012

Nulla si distrugge, tutto si trasforma.


Nulla si distrugge, tutto si trasforma. La nostra società è il perfetto emblema di avanguardia e trasformazione (e già a dirla tutta non mi sembra un gran risultato). Il mondo chiede ai giovani di essere flessibili, di migrare come rondini senza nido, da lavoro a lavoro, da esperienza a esperienza. Un patetico porta a porta privo di riscontro pratico. Il porta a porta di chi finisce un lavoro e arranca per almeno tre mesi (se hai fortuna) in attesa del miracolo, della svolta. In attesa di chi? Protetti da cosa?! Chi dovrebbe garantire il nostro futuro?! Ma ovviamente noi. Secondo le generazioni andate, magari partendo da zero, senza soldi, impastando casette di fango e distribuendo noccioline per strada, così che, fra tipo sessant'anni, avremmo in mano un impero... Beh, lasciatevelo dire, ex generazione che voleva essere trasgressiva, fare occupazioni, cambiare il mondo intero con la sola forza del non so cosa. Se il mondo è così, è merito vostro. Mi auguro solo che sia quello che volevate, perché altrimenti, ci avete solo mangiato il futuro. Sapete, nel nostro, una casa, una famiglia propria, magari dei figli, sono solo un lontano miraggio. Niente di prossimamente contemplabile. Poi oltre il danno, anche la beffa di signore che si rivolgono a te, magari dicendo "Io all'età tua già avevo il secondo figlio". Eh, grazie, tu all'età mia non eri deriva su una zattera che non porta da nessuna parte. Ricostruire ogni volta per poi vedere tutto demolito, anni di sforzi andati in fumo. Il mio proposito per il 2013 è solo quello di riuscire ad essere migliori almeno per quelli che saranno dopo di noi, di lasciargli un po' di più che un mucchio di problemi da risolvere e un mucchio di fumo. Ma con questo non voglio incolpare nessuno, siamo solo noi giovani che per fare i bamboccioni non sappiamo con chi prendercela.

Buon anno nuovo a tutti quelli che si sono scoraggiati, e a quelli che stanno ancora cercando di essere felici, ad ogni modo non smettete lo stesso di sperare.

venerdì 19 ottobre 2012

Recensione - Quel giorno sulla Luna di Oriana Fallaci



Titolo: Quel Giorno sulla Luna
Autore: Oriana Fallaci
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Pagine: 212
ISBN: 978-88-17-03259-9
Prezzo: 8,50 €

E' una fusione, un perfetto connubio tra tecnica e poesia. Mi spiego: La Fallaci in questo libro tratta e segue in modo minuzioso tutto lo "sbarco" sulla Luna (nel gergo chiamato allunaggio) e ci rende partecipi di qualsiasi cosa accaduta durante l'intera missione, con l'ausilio della sua magia. Io non mi sono mai e dico mai interessata di missioni spaziali in vita mia, ma la passione di questa donna nel raccontare la vita, mi renderebbe entusiasta di leggere persino la lista della spesa, se scritta da lei.
E così si va, si segue la sua voce narrante, che c'illustra tutto ciò che accadde dentro e fuori Cape Kennedy, dove si trovava nel Luglio del 1969 come inviata. Il clima era teso: il miracolo era nell'aria, ma emergevano tutti i dubbi e le preoccupazioni dell'organizzazione di un impresa, dalla quale due dei tre astronauti Armstrong ed Aldrin) rischiavano di non tornare. La fallaci mostra uomini forti, gelidi, ci presenta un Neil Armstrong disilluso, senza il brivido dell'avventura, per cui andare sulla Luna e collaudare un jet era lo stesso. Eppure, questi uomini, nonostante per tutto il tempo esternino il contrario, avevano paura.
... Questa gloria li ha come intirizziti ancora di più. Se ne stavano lì cercando di combattere la loro timidezza, perché sono anche molto timidi... un paio di volte Armstrong e Collins hanno tentato qualcosa che voleva essere un sorriso, Aldrin non ha tentato neanche quello: era come allucinato, sembrava di ghiaccio, immobile...
C'era soltanto una cosa che lo umanizzava: aveva due occhi febbricitanti: non erano gli occhi di un essere indifferente, pareva quasi che avesse preso una droga. Quegli occhi mi hanno spinto a fare una domanda: la domanda se avessero paura. Ho scritto questo su un biglietto e l'ho passato a Walter Cronkite, della CBS, il quale l'ha detta agli astronauti. E' stato l'unico momento divertente della conferenza stampa, perchè Cronkite ha detto: "Ho qui per voi una domanda della giornalista dell'Europeo Oriana Fallaci, che voi conoscete..." Armstrong e Collins hanno avuto un lieve scossone, un soprassalto, e tutti nell'auditorio si sono messi a ridere. Letta la domanda sulla paura, loro sono rimasti in silenzio. Loro, che avevano sempre risposto con disinvoltura e sicurezza, sono rimasti così, zitti, per tanto tempo, in un silenzio imbarazzante.
Non si dava peso alla scarsa probabilità del fallimento, eppure c'era. L'Apollo 11(chiamato Columbia), una volta entrato in orbita lunare, liberò la capsula LM (chiamata Eagle), con Armstrong ed Aldrin dentro, adibita all'allunaggio. Passato il periodo di tempo previsto, la capsula dovette decollare e dirigersi di nuovo verso la Columbia, se i motori non si fossero riaccesi, i due piloti sarebbero rimasti lì a morire. Questo dubbio li raggelava anche se cercavano di non dargli peso.
Si parla di eroi, che al ritorno sulla Terra sarebbero stati osannati come dei, ma in fin dei conti Oriana ci fa notare come gli stessi dei, eroi, che sono stati acclamati, che hanno fatto sognare il mondo, prima di ciò collaudavano i jet, sganciando bombe, distruggendo con soddisfazione città, spezzando vite d'innocenti senza alcun remore. Gli angeli che toccarono la Luna son gli stessi demoni che uccisero sulla Terra senza farci troppo caso, e ciò getta ombre, fa riflettere, pensare. Come danno da pensare le precauzioni per la contaminazione da germi lunari, mai abbastanza efficaci. Perché se davvero ci fosse stato qualcosa, un germe lunare, vita, la catena di precauzioni aveva grandi falle, e non sarebbe stata abbastanza. 
Valeva la pena rischiare tutta la Terra per un pezzo di Luna?!
Tra gli innumerevoli quesiti e riflessioni scaturite da questo viaggio, Oriana oltre l'entusiasmo non dimentica nemmeno di citare Jules Verne, col suo libro "Dalla Terra alla Luna", che aveva già previsto tutto questo, nelle medesime modalità.
Non so se siano vere o meno le polemiche sul finto sbarco sulla Luna, ma da un libro così vivo non posso non pensare che sia accaduto davvero, per quanto l'ho respirato ho quasi sentito di esserci stata anch'io.

martedì 9 ottobre 2012

Labbra fragili

Sono labbra screpolate e fragili, che per quanto sappiano ridere e piangere come quelle di tutti gli altri, nessuno ne sentirà mai il gusto. La tua bocca ha l'eterno sapore di un desiderio mai avverato, di un sogno infranto, di un volo spezzato a metà. Gabbiano ferito inghiottito dal nero catrame della vita.
Rosso profumo d'un desiderio inespresso. Labbra ingenue che non sanno baciare e vivono alla giornata, intrise di una remota speranza, che la gente non sa capire. Labbra come una promessa non mantenuta.
Occhi intensamente scuri che guardano il cielo e non vedono solo nuvole.
Sguardo di profondità inespressa, tacito accordo con l'universo.
Sei una sinfonia che il nostro stupido mondo non sa suonare. Sei il canto angelico di una ninna nanna, un bimbo in una culla.
Un abbraccio che spezza il cuore per quanto sa amare, eppure le tue labbra nessuno le può toccare.

domenica 7 ottobre 2012

Bagno di sangue



Urlo di gallinaccio, seguito a ruota dal suono della campanella. <<Siria!>>.
Mi sveglio bruscamente dal mio torpore. <<Si prof!>>
<<Stavi ascoltando la lezione, si?! In tal caso meglio per te, domani mi ripeti tutto il capitolo>>.
Quella vecchiaccia malefica, ma come cavolo è che non le sfugge niente?! Ero troppo occupata a riflettere sul catrame che annebbia i miei ricordi, figurati se con tutti i casini che ho potevo starla a sentire. Tanto nulla di ciò che cerca d’inculcarmi può tornarmi utile adesso, ma questo è meglio che non lo dico. Sbuffo <<Si ok prof>>. Come ti pare, l’ennesimo quattro. Sai quanto me ne frega. Di tante cose che potevano tornarmi utili, i miei mi hanno insegnato proprio quella che non mi porterà a nulla; l’educazione. Che non t’impedisce affatto di fare la cosa sbagliata. Al massimo eviti di rispondere male a una befana che potrebbe farti espellere. Poi?!
Fortuna che non si cambia classe, posso sbracarmi a dormire, tanto arriva Marini, quello non si accorge nemmeno se lanciano una bomba in classe, potrebbe esplodere la scuola ma continuerebbe a blaterare di numeri. Altre cose inutili che servono solo a lui.
Cerco di godermi l’attimo, che sono stanchissima, di approfittare del timido raggio di sole che scalda il mio banco, ma non mi è concesso. Ora arriva Benedetta, che più che altro è una maledizione. Non ha un solo amico in classe, in due anni non ha mai rivolto la parola a nessuno e andava tanto bene così. Finché un giorno non mi sono rovinata con le mie mani, passandole l’unico esercizio da me fatto bene al compito in classe. Che poi l’avevo fatto solo perché m’irritava il suo stupido starnazzare di quando non sa qualcosa. Rilassati secchia, a cosa ti serve sapere tutto?!
Fatto sta che adesso è diventata mia amica. L’essere mia amica secondo lei è una buona giustificazione per potermi pressare a morte ogni qualvolta si trova in difficoltà con il suo stupido studio.
Certi secchioni tra l’altro sono un enigma. Non è qualcosa di umanamente fattibile, che capiscano solo cose di scuola e collocandoli al di fuori sono zero. Non puoi avere cervello solo per lo studio poi smetti di studiare e sei la persona più inutile che sia mai esistita sulla faccia della terra, l’unica con cui non si può fare neanche il più elementare dei ragionamenti, che va in confusione. Odio la gente così. In modo terribile poi.
Come pensavo; il tempo di terminare i miei pensieri che si fionda sul mio banco, buttandoci sopra metà del suo lardo.
<<Siria, tu questo l’hai fatto?! Guarda saranno cinque volte che provo ma è sempre sbagliato, poi mi viene sempre lo stesso risultato, a te?>> Ecco, proprio quello che intendevo.
<<No, non l’ho fatto, ma se in cinque volte ti riporta sempre uguale potrebbe anche aver sbagliato il libro, può capitare eh. Adesso lasciami dormire, che ho mal di testa>>.
Sparisce verso il suo banco, fortunatamente senza aggiungere altro.


Già mi sta aspettando Rita, la mia migliore amica. Ero convinta che fosse tornata a casa, doveva uscire un’ora prima, invece mi ha aspettata. Di solito mi fa piacere, oggi no. È troppo intelligente. Fiuta le cose al volo.
Raccatta le sue borse, quando va a scuola pare sempre che parte, mi viene incontro scendendo gli scalini quattro a quattro. Io vengo dall’uscita secondaria. Il tempo di guardarmi in faccia e s’incupisce, come se avesse visto un mostro.
<<Com’è andata?! No, aspetta. Hai un’aria sconvolta, che è successo dai>>. Lo sapevo. Potrei mentire al mondo, ma a Rita mai.
<<Niente, ho dormito poco ieri sera>>. Fisso a terra. Guardare il pavimento nero mentre si dice una bugia la fa sembrare credibile. L’importante è trovare il modo di nascondere gli occhi quando la si dice. Quelli non nascondono mai niente.
<<Si ok, bella la versione per gli sconosciuti. Hai una faccia che mi pari morta e delle occhiaie da panda. Mi vuoi dire che c’è?>>
In fondo che non ho dormito era vero. Nessuno ce l’avrebbe fatta. Chi ce la fa in simili situazioni è un fenomeno. Dirle tutto non mi sembra la trovata più geniale della mia vita. Così decido di rifilarle la solita verità parziale che si dice per comodità.
<< Ieri ho iniziato la versione di latino che erano le undici. Quando ho finito ho scritto a Giacomo. Ho aspettato un bel po’ >>. Ecco qui. Non bugia, non verità. La giusta via di mezzo. Mi dispiace però. È l’unica persona che non merita un trattamento del genere, ma è meglio così. È troppo sensibile per certe cose. Non so esattamente come prenderebbe tutta l’intera faccenda. Posso accettare il “sei una cretina”, ma non si fermerebbe lì. I limiti li ho scavalcati tutti. Anche troppi, per tornare indietro.
<<Ma non ti ha risposto per niente?!>>
<<No, nulla. Mi riprenderò. Non è poi la fine del mondo>>. Fingo un sorriso che non mi riesce. Cerca di darlo per buono, anche se non risulta credibile. In fondo conviene anche a lei. Preoccuparsi per me la fa stare in ansia. Lo sa che quando la combino più grossa del solito tendo a nasconderglielo. Spesso perché mi vergogno. Lei in fondo è perfetta. Non ha mai fatto la cosa sbagliata in vita sua. Non potrebbe mai capire il mio continuo tuffarmi a capofitto in situazioni che non portano a niente, il mio agire spinto dalla voglia di un qualcosa di concreto, che non trovo mai.
Sorride in modo fasullo, dice “Almeno riposati, mi fa brutto vederti così”. Le rispondo che lo farò. Fortunatamente non c’è modo di continuare il discorso, è già arrivata mia madre. Parcheggiata parla al telefono. Suona il clacson. Ha sempre fretta quella. Troppa per accorgersi di ciò che le accade intorno. La saluto con un mugolio stinto poi mi siedo. L’auto è liberatoria e distruttiva, ti scherma da tutto quello che hai intorno. Ti fa sentire al sicuro, libera di cacciare via la sporcizia che hai dentro. Così mentre mamma parla del pomeriggio, dei suoi impegni, della vacanza che “faremo” l’estate prossima, delle lezioni di danza di mia sorella questa settimana, io mi affogo nello zaino.
Soffoco più lacrime possibile, bagnando la borsa, che stringo sulle gambe. Lacrime stonate che non trovano suono, né identità. Vanno a perdersi inutilmente nella stoffa, tra i miei affanni, come me, che non mi ritrovo più da un pezzo. I morsi della paura li senti sempre quando fanno più male, quando ti trova vulnerabile e si prende gioco di te. C’è uno stagno sulla borsa, tiro su col naso, forse ho bagnato i libri, cerco di asciugarmi la faccia, che la strada per casa non è poi così lunga. Non toglierò mai il rossore in tempo, ma sono certa che nessuno lo noterà, che sono rossa paonazza e ho pianto per venti minuti buoni, come anche per le due ore di ieri sera. Se qualcuno lo nota, basta dire che ho il raffreddore e ci credono tutti. Tanto che problemi ha una quindicenne. La vita è lunga per preoccuparsi.
Mi trascino in casa, aggiusto i libri sulla mensola, se no poi rompono per il disordine e non ho voglia di mettere a posto dopo, lo zaino lo ripongo sulla sedia. Cecilia, mia sorella, irrompe nella mia stanza. Ha sei anni. Rompiscatole, non ti ho mica dato il permesso. Non m’importa se adesso non comprendi il valore dell’avere i propri spazi ed al momento ragioni come un criceto, qui, nella mia stanza, non ci devi assolutamente entrare.
Scavalco con due falcate il mio disordine, per arrivare in cucina. Ho fame. È proprio quello il problema. Ho fame ma lo stomaco si chiude lo stesso. Non si può mangiare così. Oggi però non voglio storie, non voglio né sentire mia madre lamentarsi, né nessun altro. L’unico motivo per dare uno sguardo a quelle due cose che ho nel piatto, prima di andare in bagno e vomitare.
Tanto mamma non se ne accorge, è di là al telefono che parla con Isa, la sua amica. Discorsi più importanti di me, tutto lo è.


Riaggancio il telefono. L'ordine è fatto.
La sera mi sembra di essere invisibile. Riesco a parlare, a sentire l’eco dei discorsi con la mia solitudine, che mi trascina via, verso un baratro in cui è impossibile non cadere.
Non so se basta. Anzi, lo so. Mi sdraio nella vasca. Apro l’acqua e ascolto il suo scrosciare incessante, mentre il corpo si scalda, si rilassa e trova pace. Messo e non concesso che io conosca il significato di questa parola. Mi basta un bagno per schiarirmi le idee.
È una schifosissima, gelida giornata di Novembre. Nessuno vorrebbe essere lì fuori. Io, al caldo del mio bagno, preferirei. Preferirei qualsiasi cosa, se servisse a non essere me stessa. È da un po’ che vorrei solo svegliarmi ed essere un’altra persona. Forse quella che non sono mai stata capace di essere. Forse Rita. Forse quella stupida secchiona dalla vita vuota e insulsa. Fai la brava, fai i compiti, vai a dormire, ti svegli e di nuovo così. Routine, dovere.
Preferirei essere quella scialba ape che continua a picchiettare contro la finestra chiusa senza riuscire ad entrare.
L’acqua sale, insieme ai miei pensieri, che volano come bolle di sapone, coriandoli neri.
Chissà chi ci va all’Inferno. Chissà com’è. Incandescente come lava o gelido come l’indifferenza?!
Lacrime a catene indissolubili. Si cacciano via a forza l’un l’altra, come sale negli occhi. Scrosci di acqua e sale. Il mio convulso piangere si cela nella vasca. In una casa dove nessuno può guardare. Nessuno adesso mi può vedere. La casa è vuota e piango. Come fosse una melodia. Le stupide note della mia sgraziata vita. Spero, spero solo prima dell’ Inferno di trovare la pietà, per un’infelice come me. La nenia della mia triste esistenza si ripete senza fine.
Mi viene da urlare, non ha senso ma strapperei il mondo a lamenti, se ciò servisse a portar via almeno quella manciata di minuti che ha concretizzato la follia.
Tre settimane fa è cambiato tutto, per uno stupido errore, che Rita non sa. Perché io non ascolto mai.
Vasca piena. È caldo. Il calore, i vapori potrebbero farmi svenire, ma non sarà così.
Giacomo. Era circa un anno che questo nome occupava la stragrande maggioranza dei miei pensieri. Era più forte di me. Qualcosa di così magnetico da calamitarmi a sé senza pietà, né risparmio. Anche una semplice attrazione è capace di assorbirti da dentro. Ma questo Rita non lo sa.
Ha diciannove anni. Pluribocciato. Da farci l’abbonamento a vita. Chissà cos’avrei dato in quell’anno intero per arrivare ai suoi riccioli neri, a quella bocca, che poteva togliermi il respiro con un sussurro.
Tre settimane fa, in gita, abbiamo cominciato tutti giocando. Uno di quegli stupidi giochi in cui si dicono scioglilingua sempre più velocemente, chi sbaglia beve. Ancora e ancora, fin quando non gira vorticosamente il mondo e i pensieri sono più diluiti delle schifezze che ad ogni sorso butti giù.
Mi sento male solo a pensare al modo in cui ho trattato la mia amica, quando si è rifiutata di partecipare ed è andata nella sua stanza, da sola, a guardare la tv “Si, vai a pettinare le bambole già che ci sei”. Ora vorrei solo essere andata a pettinarle con lei.
L’acqua sale. Io coperta. Suona nelle orecchie l’eco del suo rumore. Rumore ovattato, materno. Eppure la calma non è affar mio. Tuonano i sussulti che ho in corpo. L’angoscia mi trema in gola, nella testa, nelle gambe. Nelle mani, nei polsi, pulsanti per i battiti accelerati del cuore. Cuore che corre, esasperato dalle mille emozioni di una vita intera bruciate in un solo insaziabile attimo di tormento.
I minuti più nitidi del mio intero esistere; passaggi di bottiglie, bicchierini, sorsi amari, dolci, salati. Sale di lacrime.
Poi tutto è confuso, il colpo arriva sempre all’improvviso. L’ultimo ricordo, il suo viso.
Il cervello risucchiato da un buco nero di veleno. Vuoto.
Io che resto in stanza con lui e forse non siamo soli. Molti se ne vanno. Il mio corpo che avvampa, incendia sotto il suo calore senza fine, forse siamo soli, forse.
Una mattina di mal di testa e confusione, mista al terrore, al fingere felicità. Raccontare bugie alla migliore amica, dicendo che è scappato solo qualche bacio e la promessa di sentirsi presto, mai esistita.
Bollente. Non è un semplice bagno caldo. Voglia di espiare, non sopportare più il peso del proprio peccato. Aspetto quasi che si stacchi la pelle. Sarei felice. Invece tocca a me. Spetta a me il compito di guarire dal mio male.
Era già pronta da ieri. In un bagno abbandonata così sembra un semplice elemento di arredamento. Nessuno ci penserebbe mai. Una stupida lametta.
Mi muovo nell’acqua e finalmente rido in questo assurdo delirio di follia. Eppure non è facile.
Ci pensi un attimo, che il mondo stai per non vederlo più.
Un piccolo gesto spesso ci separa dal nostro destino, ma quando altri precedenti segnano già la tua strada è inutile sottrarsi. Scappare e perdersi in fughe senza fine che non portano a nulla.
Non so cosa aspetto. Questa serata è concepita apposta perché nulla mi possa salvare. Nemmeno l’intromettersi di Cecilia. È da un’amica. Questa serata è per me.
Pensi. In questi casi vorresti quasi farti un discorso importante, perché morire a cavolo sembra un po’ una scemenza. Morire così sembra uno scherzo. Vuoi pensare qualcosa prima d’inaugurare la seconda vita, qualcosa che lasci il segno…. Ma in fondo, più segno di così…
Intorno è tutto ovattato e materno. Echi di pace non troppo lontana, eppure non ancora tangibile.
Braccio sinistro. Un po’ rosso. Il destro trema di più. Cerco di non piangere, di smettere, ma è più forte di me. L’angoscia t’intrappola. È un fenomeno vedere qualcuno che muore lasciandosi alle spalle qualche discorso sensato.
Quelle piccole vene verdi. Non voglio pensarci più. Né immaginare il dolore che seguirà.
Penso al cartone. È come ritagliare figure con un cutter. Sii precisa e fa meno male.
Invece no. Le stacco di netto. Ferita profondissima. Meno uno. Urlo. Un grido triste e soffocato. Nessuno mi deve sentire.
Di là è più difficile, la forza viene meno quando il braccio perde energie. Sono già a metà dell’opera. Tremo, sussulto, piango. Non posso non essere più sicura.
Ancora più netta. Metallo freddo, che stronca il caldo e dolce pulsare di una vita che non tornerà.
Sangue che sgorga. Cuore che pompa all’impazzata, per compensare il nulla. Spietata la morte, urla strazianti di sofferenza insopportabile, che non può più nascondersi, ora di smetterla a giocare a nascondino. Pianto più veloce del rosso che tinge la vasca.
Il rosso di una rosa sporca.
Contamino l’acqua intorno.
È vero. Ieri sera ho aspettato per ore una risposta di Giacomo. E' arrivata.
Quello che Rita non sa, è che gli scritto che sono incinta, neanche certa che il padre fosse lui. Il buio mi ha dilaniata in una frase “Fanne quello che ti pare, a me non interessa”.
Ce ne andiamo sottovoce, senza disturbare un mondo sordo. Mia madre con i suoi impegni, i miei prof per cui conta solo lo studio, la secchiona. Rita, forse l’unica che avrebbe capito.
In fondo mi sarebbe piaciuto un esserino con i suoi occhi e il suo sorriso. Ma non così, non così sola.
Avrei voluto dirlo a mia madre, beh, avrebbe detto subito di eliminare il disturbo e non se ne parla più. Insabbiare un bimbo come se non fosse mai esistito. Buttar cenere sopra un errore. Poco sarebbe importata la mia volontà, la mia libertà di decidere, pari a zero. La vita che ti chiude portoni in faccia. Non si accorgerà di stasera. Quando i miei sono altrove non notano niente al volo. Ci vorrà un po’, specie per capire che qualcuno nella morte mi ha fatto compagnia.
Mentre il mio corpo si prosciuga, mi chiedo come sarebbe stato. Magari di tanta gente insulsa che viene ogni giorno al mondo, sopprimo proprio la vita di quello che avrebbe fatto la differenza. L’unico capace di rendere questo schifo di mondo un posto migliore. Una piccola anima che si sforza per il bene. Mi consola solo che sarebbe potuto semplicemente diventare un altro piccolo bastardo, come suo padre, capace solo di far del male alle persone che lo circondano. Cerco di convincermi che è stata meglio così. Mentre sento l’anima scivolare via, chissà verso quale altro atroce Inferno.






Questa se ho un po’ di fortuna è l’ultima. Non è bello fare le consegne quando il cielo butta giù acqua così.  Piove da schifo e se vogliamo dirla tutta ho pure fame.
Beati loro, bella villetta. Sicuro non gli mancano i soldi.
“Marchesi” è il cognome. Il portone di casa è aperto, come tra l’altro il cancello. Entro?!
Facciamo l’educato <<Mi scusi! La pizza! Può venire qualcuno per favore?>> Ma è normale la gente?! La porta di una villa aperta… mi sto bagnando sotto il diluvio. Se è uno scherzo stavolta li uccido. Cavolo per fare gli imbecilli almeno scegliete una giornata in cui non si gela così!
Entro, al massimo mi arrestano. Bella casa.
C’è qualcosa che non va. Una puzza schifosa che non so descrivere. Seguo la scia per capirne il senso, comincio ad avere paura.
Una pizza che cade. Urlo e corro via con tutta la forza che ho in corpo, non basta per scappare.
Quasi aggredisco un tizio sulla sessantina. Gli salto addosso urlando, lo tiro per la manica del giubbotto e finalmente trovo le parole per dire a qualcuno “C’è una ragazza morta in quella casa, nella vasca piena di sangue”.

martedì 2 ottobre 2012

Chi sono?

Chi sono?! Non lo so. Nessuno lo sa.
Si possono dire tante cose su chi si è o non si è. Molti hanno la certezza di saperlo. Io no. Mi scopro giorno per giorno e ad ogni nuovo attimo cerco d'imparare qualcosa su di me.
Ma sono senza certezze; è come morire e rinascere ogni giorno. Mi plasmo come creta, cambio forma in continuazione. Rinasco dalle ceneri. Un continuo divenire.
Tutto quello che posso dirvi di definitivo su di me, è semplicemente cosa ho fatto e cosa faccio.


Sono nata ad Ascoli Piceno il 29 Maggio 1991. A una certa età (avrò avuto quattr'anni) qualcuno ha ben pensato di mettermi una matita in mano per vedere cosa poteva succedere e ho iniziato a disegnare. Non ho mai smesso. Una bambina strana, che disegnava in modo febbrile ogni volta che ne aveva modo e si registrava quando cantava le canzoni, tornata dall'asilo. Ho iniziato a studiare canto a quindici anni e tutt'ora continuo a farlo.
Ho frequentato l'Istituto D'Arte, conseguendo il diploma in Arti Grafiche con votazione 100/100. Ho partecipato successivamente a due corsi di grafica, ottenendo le qualifiche di Grafico editoriale e Grafico bozzettista.
Il mio più grande amore è sbocciato all'improvviso. Per sfogo. Per caso. La scrittura.
Ogni volta che ci penso, mi rendo conto che in fin dei conti c'era sempre stata. Tranquilla. Sopita. Nascosta. Viveva in punta di piedi tra le pieghe della mia esistenza, lanciando lontani echi, quasi senza far rumore. Si limitava ad emergere per sussurri, una volta tanto, a fare capolino da ogni tema uscito bene a scuola, a depositarsi distrattamente sulle pagine di un diario. Delicata e silenziosa come petali invisibili, ma indelebili.
Un giorno, un freddo giorno presumibilmente di Febbraio 2011, è esploso qualcosa: il mio mondo non era più lo stesso.
Stravolta, insicura, sospesa a metà tra passato e futuro, ho preso coraggio e ho cominciato. Ho scritto un libro. Angolo Buio: una storia ancora più evanescente, incerta, spaventata e fragile. Storia di un'amicizia che può essere tutto, o forse niente. Un addio, un arrivederci, o un ritrovarsi, chi lo sa. Una straziante fonte di tormento e di riflessioni. Turbolenta, violenta, difficile. Complicata come seguire il filo dei miei pensieri.
Ho scritto... e dopo tanto tempo mi son sentita ancora viva. Ora ho un sogno: la pubblicazione, ma ancor più di tutto, emozionarmi ed emozionare. Regalare vita, come la scrittura ha dato vita a me. Voglio inseguire il brivido che le parole sanno dare, corrergli dietro, farlo mio, tremare e far tremare. Graffiare, rompere quella corazza che troppo spesso nasconde le anime che voglio colpire. Entusiasmare.
Ora voglio smettere di sopravvivere e finalmente esistere, assecondare ciò che sono ed essere felice.
Questo perlomeno è il mio presente. Il futuro, d'altronde, nessuno lo sa.





sabato 29 settembre 2012

Marea


Oggi ho sentito una strana marea smuoversi dentro. Quel baleno di vuoto che ti riecheggia nel cuore quando ti manca una persona.
Mi sono sentita così sola e abbandonata, e sono venuta da te. Nonno.
I loculi sono sempre tutti uguali, allineati, quasi sterili. Se solo non ci fossero dentro le persone.
Il cimitero lo percorro tutto, che sei quasi alla fine. Lo spazio esterno è largo, ampio. Un grande, asfaltato piazzale, che se guardi in alto gli si staglia subito addosso il cielo. L'esatto contrario del buco in cui ti trovi tu.
E mi è salita un po' l'angoscia. Quel cortile così grande, circondato da due mura di tombe, uno davanti e uno dietro, ti fa sentire sempre così inutile. Così sperduto. Così solo.
Sola, specie perché non ci ero mai venuta senza qualcuno che mi dicesse "Non ci pensare, è domenica. Poi andiamo a prendere le paste e facciamo pranzo". Oggi è solo uno schifosissimo plumbeo lunedì e mio padre è a lavoro. Non c'è.
In mezzo a quel mare d'asfalto c'è una panchina. Una piccola zattera dove riposare. Da quella zattera, quella piccola barchetta in mezzo al mare, se guardo abbastanza in alto posso quasi guardarti negli occhi, che il tuo loculo è quasi troppo su.
L'odore di morte e crisantemi appassiti nell'acqua sporca, quel gelo nelle ossa, i cipressi. Li sento tutti dentro e mi esplodono in una lacrima. Cola pesante e mi scava la guancia. Fa male.
Avrei voluto lasciarti scritto un foglietto con su scritto

"Ti vogliamo bene nonno, non ti dimenticheremo mai.
Anna, Teresa e il piccolo Giò. I nipoti."


Ma poi non l'ho fatto. Tutti i parenti avrebbero semplicemente pensato che sotto c'era il mio zampino, che sono strana. Che a fare certe cose potrei arrivarci solo io. Che sono una patetica esibizionista. Che gli altri due nipoti non avrebbero scritto niente a nome loro. Una perchè non ci avrebbe pensato, l'altro perchè appena nato.
E forse magari hanno ragione, neanche lo so. So solo che ho bisogno di vivere le cose a modo mio. Questo non tutti lo possono capire. Così lo tengo per me.
Ho bisogno di urlare che non ho dimenticato, che continuo a ricordare.
Ricordo ancora. Quando mi prendevi le mani e come una trottola mi facevi girare veloce e ridevo. Quando non volevo più il gelato e spiegandomi che non si spreca e che in Africa i bambini muoiono di fame, poi te lo finivi sempre e comunque tu.
Ricordo quando mi sbucciavo il ginocchio e tu mi dicevi di non piangere, che mi sarei fatta ferite peggiori, e non capivo. Ricordo quando ti facevo una domanda semplice e cominciavi a raccontare la tua vita da quando eri bambino fino al matrimonio. Ricordo quando ero troppo bassa per arrivare alla credenza per prendere un piatto ed aiutare la nonna, e mi mettevi sulle spalle per tirarlo giù insieme. Poi ancora, quando ti ho presentato quel ragazzo e dicevi che per me era sbagliato. E avevi ragione.
Ricordo troppo e piango rannicchiata su quella panca. Ancora più forte.
Perchè questo non c'è mai stato. 
Perchè sei morto troppo presto e nemmeno ti ho conosciuto. Tutti dicevano che eri fantastico e io non saprò mai quanto.
Sai nonno, non è detto che i ricordi che non hai mai avuto facciano meno male perchè non esistono. Non è detto che mi dimentichi di te perchè non ti ho conosciuto di persona. Perché a volte quello che fa più rabbia di certe situazioni è proprio il non averle vissute.
A volte i ricordi mai avuti sono quelli che fanno più male.







A mio nonno
e a tutte quelle persone
a cui non ho fatto in tempo a dire
"Ti voglio bene."