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venerdì 30 giugno 2017

Recensione: Oriana. Una Donna, di Cristina De Stefano

Titolo: Oriana. Una Donna.
Autore: Cristina De Stefano
Editore: Rizzoli
Genere: Biografia
ISBN: 978-88-17-06898-7
Data di pubblicazione: ottobre 2013
Num. Pagine: 301
Prezzo: 19 €

Trama:L’autrice, ricostruendo l’intricato puzzle della vita di una donna così complessa, ne rende un quadro completo ed esaustivo. Racconta luci ed ombre di Oriana, anche laddove la scrittrice era stata molto abile a camuffarle tra gesti e parole.
Recensione:
Apertura perfetta che toglie le parole di bocca. Comincia e termina con la stessa visione dell’ultimo viaggio in aereo, conferendo una certa idea di perfezione. Come se fosse una narrazione circolare, più che qualcosa dall’andamento lineare. Sapete, una biografia inizia nel passato e va verso il futuro, ma il fatto che questa nasca e muoia proprio nella fine, è come se vanificasse il tempo.
Fenomenale è l’immagine di un’antica leonessa: un eroe che torna dalla guerra con ferite mortali e nonostante tutto non demorde.
Ha voluto lei questo viaggio verso casa. Da quasi cinquant’anni vive a New York, ma desidera che tutto finisca dove ha avuto inizio. La cabina è in penombra, per non ferirle gli occhi malati. Accanto a lei ci sono due dottoresse, pronte a intervenire in caso di emergenza. In realtà, resta tutto il viaggio immobile sul sedile, raggomitolata su sé stessa, immersa nei ricordi. Firenze le viene incontro lentamente, portando con sé il passato.
Salvo questa breve anticipazione, cercherò di mettere in ordine il caotico fiume di pensieri, al fine di tirarne fuori frasi di senso compiuto.
Impeccabile il linguaggio: la personalità ingombrante di Oriana è sorprendentemente resa dallo stile dell’autrice. Uno stile così  discreto, che emerge senza farsi troppo avvertire, facendo, con poche espressioni azzeccate, da collante perfetto tra la guerriera e la persona fragile, umana. Il testo è arricchito dalle citazioni della Fallaci stessa, che gli donano colore e forma: a volte sembra che il ritratto della donna emerga spontaneamente, attraverso le sue parole.
Di questa persona brutale, difficile, viene fuori una storia unica a partire dagli inizi. Un esordio alla vita composto da rabbia e povertà: un padre eroe di guerra, dal coraggio tale da non parlare neanche sotto tortura, che influenzerà continuamente la sua idea di uomo vero, eroe che cercherà spesso per poi restare delusa;  una madre che sarà sempre il suo esempio, purtroppo schiavizzata dalla condizione sociale e dallo stato di famiglia. Una voragine da colmare: vendicarla con la cultura che per quanto intelligente, Tosca non si era mai potuta permettere e per la cui mancanza soffriva in modo tangibile.
<<Il mio carattere si è formato allora: il mio cattivo carattere. Ero molto mite, mi dicono, prima di andare a scuola. Divenni dura e aggressiva a scuola, divenni arrabbiata a scuola: scoprendo che io ero più brava di loro. E che loro erano ricchi sicché la loro mamma non doveva piangere per farli studiare.>>
Cristina De Stefano, ci conduce a scoprire poco a poco i punti deboli di questa roccia indistruttibile, scavandola come acqua. Emergono note inaspettate, colori sgorgano dalle sfumature ingrigite o appesantite dai media. Con molta sensibilità, viene portata alla luce una donna diversa, dal mostro crudele delle caricature stupide, maligne (sì, perché con lei si è superato davvero ogni limite e non farò nomi, che tanto si è inteso) e aggressive, che ci è presentato di solito.
L’analisi profonda, viscerale, fa emergere una persona descrivibile solo tramite forti contrasti. L’ossimoro è ciò che la caratterizzerà meglio e sempre: brutale eppure capace di un amore da far sbiancare; atea eppure cristiana a modo suo. Totalmente incatalogabile nelle sue catalogazioni.
Questo a parer mio è il punto di forza dell’intera biografia: aver vinto la sfida di ricostruire un carattere enigmatico e di difficile lettura. Sfuggevole anche qualvolta cercasse di venire incontro alle persone. Ha disegnato un’umanità che non si scorge ad occhio nudo e lo ha fatto senza scendere in dettagli fastidiosi.
C’è l’intera storia lavorativa, fatta di conquiste sudate e meriti. Ci sono i lunghi e numerosi viaggi di lavoro, le esperienze di guerra, le interviste praticate penetrando l’anima dei soggetti, anche al costo di stuzzicarli o ferirli perché uscissero dal guscio.
Infaticabilità e instancabilità son sempre state le parole chiave.
Eppure non sono il piatto forte: non è l’Oriana giornalista/scrittrice nota al mondo, che commuove prepotentemente il lettore.
Le vicende amorose sono quelle più interessanti. Quelle che scoprono la donna fragile, che cade e ricomincia continuamente a dare tutta se stessa, che elemosina affetto, che scrive sterminate lettere ad un uomo indeciso che non la vuole.
Oriana innamorata è un’Oriana del tutto inedita, dolcissima, fragile. È difficile credere che sia davvero lei l’autrice delle minute lettere ad Alfredo conservate tra le sue carte. La donna che scrive è una donna che sogna una vita di coppia, che si dice disposta ad abbandonare tutto, anche il lavoro, per questo sogno. Una donna che mendica amore, che scusa tutto e giustifica tutto, che si umilia e si cancella davanti all’uomo che ama. Per la prima -e forse unica- volta in vita sua Oriana è del tutto vulnerabile.
Strugge davvero il cuore, venire a conoscenza delle sue speranze infrante di formare una famiglia, del tentato suicidio per Alfredo Pieroni e delle altre storie fallite bruscamente. Quel sentimento intenso per Francois Pelou, a lungo diviso tra lei e una famiglia a cui non avrebbe rinunciato mai; Alekos, un uomo anzi l’uomo per eccellenza, l’eroe che ha corrisposto anzi dato vita a quel fiume d’affetto, morto in circostanze misteriose; Paolo Nespoli, la scommessa impossibile per via della differenza d’età.
Lungo la lettura, mi sono chiesta infinite volte come fosse possibile nascondere tanta umanità, tanto calore; come possa capitare, di annientarsi completamente per un uomo, al punto tale da pensare di rinunciare a una gravidanza tanto desiderata, pur di non perdere l’amore.
Per non parlare degli aborti spontanei, almeno due, a come le vicende della sua vita l’abbiano incisa e plasmata senza pietà, molto più di quanto desse a vedere. Commovente è l’immensa mole di dolore, che si è sempre portata dietro come una zavorra.
Nonostante questo, non ha mai evitato le sfide. Non si è mai arresa di fronte alla cattiveria, all’ignoranza, alle malelingue. Anche da questo scritto, si evince che ha sempre cercato il coraggio, anche a costo di farne le spese in prima persona.
Altra novità per me è stata venire a conoscenza del colloquio con Papa Ratzinger, del suo seppur diffidente riavvicinamento alla Chiesa.
Poliedrica, imprevedibile in ogni sua faccia, come un diamante sconosciuto al mondo e trovato all’improvviso in un angolo remoto. E Cristina De Stefano ha colto in pieno il succo di ogni sua apparente contraddizione, conciliandola col resto, riempiendola del giusto senso. Ha costruito un ponte efficace, tra quella fortezza inespugnabile e il pubblico che ha da sempre sete di sapere.


Recensione: La Rabbia e l'Orgoglio, Oriana Fallaci

Titolo: La Rabbie e l’OrgoglioAutore: Oriana FallaciEditore: BUR RizzoliAnno: 2001Prezzo: 10 €Num. pagine:161ISBN:978-88-17-03560-6
Trama:
In principio doveva essere un’intervista alla giornalista da pubblicare sul Corriere Della Sera, ma poi nasce un articolo, creato quasi sotto supplica del direttore del giornale, che speranzoso si è recato a casa della Fallaci a New York, per contrattare con lei. Per convincerla a spezzare il silenzio d’indignazione durato dieci anni. E ci riesce.
Ciò che le fa scattare la molla per esplodere,  per scrivere di nuovo, è l’indignazione,  lo schifo provato nei confronti di chi se la ride. Le Torri Gemelle crollano inghiottendo anime a bizzeffe, e qualcuno ne è felice. Così Oriana decide di farsi sentire, di far tuonare le sue idee riguardo l’attentato dell’11 settembre, e più che un articolo di poche pagine esce fuori un piccolo libro, che sgomita per essere letto, occupando spazi sul giornale che non erano adibiti ad esso. E buca. Il sermone buca i cuori degli occidentali, tanto che accadono fenomeni strani : chi fotocopia quella ventina di pagine e le distribuisce con entusiasmo per strada, chi compra il giornale una trentina di volte e fa la stessa cosa e chissà perché. Forse perché almeno per un attimo ha svegliato il patriottismo di qualcuno. Forse qualcuno, dopo averlo letto, voleva scuotere l’identità nazionale sopita, lo spirito critico comune addormentato. Direi che c’è riuscita e ha fatto anche di più, smuovendo un incredibile polverone di risposte, polemiche, complimenti.
Il testo uscito sul Corriere Della Sera, altro non è che una versione abbreviata, tagliata, in un certo senso “violata” della stesura effettiva, troppo estesa, per cui viene successivamente pubblicato un libro vero e proprio. Ed eccoci qui.
Recensione:
Non ricordo neppure se certe cose le ho viste sulla prima Torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi o centesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute. A dozzine. Sì, a dozzine. E venivano giù così lentamente. Così lentamente… Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’aria. Sì, sembravano nuotare nell’aria. E non arrivavano mai.

Lei lo chiama sermone. Alcuni lo vedono come un “manifesto razzista”, o perlomeno polemico. Per me è semplicemente di fuoco, qualcosa che va tenuto con le pinze per non scottarsi troppo, da cui prendere distanza perché fa paura. Ma deve far paura, lo scopo è quello. E’ stato concepito così.
L’11 settembre 2001 è una data che segna un evento storico particolare per la mia generazione: non si è trattato di studiarlo in modo impersonale, togliere la muffa da qualche vecchio librone, leggere e sottolineare. E’ stato di più; una disgrazia riguardo la quale ognuno di noi può dire in qualche modo “io c’ero” e riportare alla mente racconti, ricordi vivi.
Io ad esempio avevo dieci anni. Saranno state le tre di pomeriggio, o le quattro e guardavo la tv mentre facevo i compiti. Con una certa ingenuità mi chiesi perché mai avessero troncato a metà il cartone animato. Poi le vidi. Non è stata indelebile tanto la dinamica (quale aereo abbia colpito quale torre, dettagli che lasciano ampio spunto ai complottisti d’introdurre le proprie congetture), quanto le singole scene. Come se la mia memoria avesse assimilato spezzoni confusi e smangiucchiati.
Boccate di fumo che invadono una torre. Tanto fumo che ricordava vagamente la nuvola densa, il funghetto di quando sganciano una bomba atomica, quel “leggero” sentore d’apocalisse. E poi passò del tempo, troppo, in cui la gente non sapeva che fare per salvarsi da quell’inferno… allora si buttava giù. Lì per lì non era tanto lontano da un cartone animato, da un videogioco, vedere un omino piccolo piccolo che cadendo a piombino fende l’aria. Però ci mette troppo. Un’enorme quantità di secondi impiegati per sfracellarsi al suolo e più il macabro conto alla rovescia corre, più cominci a realizzare l’inquietudine, la morte, la disperazione. Gente che fa voli infiniti per porre fine all’attesa, perché la paura e l’angoscia fanno quasi più male del buttarsi giù. Poi niente, c’è l’edificio che crolla su sé stesso con quasi perfetta verticalità, senza ben capire che diamine fosse successo, perché neanche si era finita a consumare la tragedia, che già giravano diverse versioni dell’accaduto.
Si dice che i bambini siano spensierati e non capiscano tante cose, eppure alcune di esse mi si sono incise dentro, come il fatto che molti, prima di abbandonare il mondo dilaniati dal fuoco, si siano lasciati andare a messaggi d’addio. “Ti voglio bene, ti amo”, addii che nessuno lì per lì avrebbe capito, fin quando accendendo la tv non avrebbe visto l’edificio in cui il suo famigliare lavorava, raso al suolo.
Non mi è sfuggito nemmeno che la vicenda  nel tempo ha consumato altre persone, come le squadre di soccorso, con tutti i cani. Beh, quelle squadre, cani compresi, hanno assimilato tanto di quello schifo tra polveri ecc, che nel tempo se li è portati via uno ad uno qualche tumore. Eroi taciti, vittime senza voce, ma reali quanto quelle che abbiamo visto con clamore vaporizzarsi in tv.
Ad ogni modo non poteva limitarsi a questo. Oriana Fallaci se doveva mettersi al tavolo per scrivere un promemoria “cari ragazzi, oggi è successa una cosa tristissima” , un resoconto, non ci avrebbe nemmeno stappato la penna. Lei si è sempre fermata un passo in là rispetto agli altri, non si è mai risparmiata e anche stavolta si è spinta oltre. E’ sempre stata solita sporcare il foglio a morte, pertanto la sua narrazione, la versione dei fatti per così dire, altro non è che una parentesi di un discorso dal tema più ampio. Il tutto diventa un saggio più grande, sull’immigrazione e l’attrito con la cultura musulmana.
Il succo della questione è il seguente: i musulmani ci uccideranno tutti?! Beh, io spero di no, e sinceramente se lo augurano in molti. Le affermazioni di Oriana tuttavia danno da pensare. Certi racconti, citazioni e dati riguardanti la cultura musulmana sono per certi versi agghiaccianti. Lo stralcio che vi riporto è quasi leggero, all’acqua di rose rispetto all’intero discorso.
Durante un sinodo che il Vaticano tenne a Smirne nell’ottobre del 1999 per discutere i rapporti tra cristiani e musulmani un eminente musulmano si rivolse ai partecipanti cattolici dicendo:
<<Attraverso la vostra democrazia vi invaderemo. Attraverso la vostra religione vi domineremo>>.
Da qui parte l’accusa “razzista, razzista” e si solleva il polverone sopra citato. Perché lei non approvava questa immigrazione in Italia, dove i giovani musulmani vengono educati secondo il Corano nelle moschee qui da noi costruite. Da qui nasce il timore di un’ “invasione silenziosa”, camuffata da immigrazione pacifica, come un virus che attende solo di esplodere. Si snoda la rabbia verso una cultura che non permette una diversa visione delle cose, per cui tutto è bianco o nero. E ce n’è anche per noi, per l’Europa. Ha un discorsetto un po’ per tutti. Soprattutto per la pubblica opinione che si contraddice, che addita e per mostrarsi misericordiosa si fa le cosiddette “Vacanze Pericolose” mettendosi una mascherina visitando il Ground Zero. Ne ha per i politici, per gli occidentali e soprattutto per gli italiani e  la loro indulgenza.
Oltre le polemiche e le accuse d’ipocrisia, c’è  una parentesi interessante riguardante l’immigrazione in Italia, in cui spiega perché non è possibile accogliere gli stranieri com’è stato in America anni e anni fa. Parla di un’ Italia troppo piccola, sovrappopolata  , dalla cultura profondamente radicata che ha resistito alle varie invasioni, mentre in sostanza il continente americano ha un’identità mista. Esso, inizialmente spopolato, si è riempito con le varie etnie, lo stesso Lincoln aveva incoraggiato l’immigrazione. Un mosaico ben riuscito di culture, in cui ciascuna conserva la sua identità. L’Italia invece è già un blocco unico, impossibile da scindere o scomporre.
Inoltre l’Italia non si è mai fusa con gli invasori che la occupavano, la smembravano, la straziavano. (…)
A forza di andarci a letto per amore o stupro o matrimonio, ha assunto molte delle loro caratteristiche sociali, sì. (…)
Però culturalmente non si è mai lasciata inghiottire da loro. Al contrario, li ha sempre assorbiti come una spugna che succhia il liquido nel quale è immersa.

In conclusione, è intenso. Estremamente intenso, nudo, crudo e senza fronzoli. Un libro da lei profondamente sentito, che mi ha lasciato dentro molte, forse troppe domande e perplessità. Parole che fanno tremare le gambe dallo sbigottimento, dalla paura.
Diciamo che le sue parole, di speranza ne lasciano ben poca, se non quella di prendere il forcone e “cacciare l’invasore”. Però in un certo senso voglio essere ingenua e chiudere con una riflessione: alla luce di un 2013 in cui alcune donne a portare il velo non ci stanno più, in cui ragazze ci hanno rimesso la vita per voler vivere da occidentali ed alcune grazie a un diverso modo di pensare dei genitori ci sono pure riuscite, siamo davvero sicuri che non si possa costruire un mondo migliore, fare scelte diverse da quelle di morte e distruzione volute fin troppe volte nel corso della storia?!
Siamo davvero certi di non voler essere una generazione migliore?!
J’accuse, io accuso, gli occidentali di non avere passione. Di vivere senza passione, di non combattere, di non difendersi, di fare i collaborazionisti per mancanza di passione.

Nonostante il mio pensiero che va fuori dal binario, ho apprezzato proprio questa passione, carica, la rabbia, il non avere paura e il non fermarsi davanti a nulla. Sapete, non tutti al giorno d’oggi sono disposti a difendere fino alla fine le proprie idee. In questo mondo sono pochi ad avere le palle, nessuno è disposto a rischiare un pelo di più, uscire dallo schema delle proprie sicurezze, per dire la sua.

Recensione: La forza della Ragione, di Oriana Fallaci


Titolo: La Forza della Ragione
Autore: Oriana Fallaci
Editore: BUR Rizzoli
Anno: 2004
Prezzo: 10 €
Num. pagine: 308
ISBN:978-88-17-03500-2
Trama:
Dopo “La Rabbia e l’Orgoglio”, dato alla luce nel 2001 in seguito al tragico attentato alle Torri Gemelle, Oriana riprende a parlare e a far parlare. Riprende il discorso da dove l’ha interrotto, facendo leva stavolta non sui sentimenti freschi dell’orgoglio nazionale, dell’indignazione per quanto appena accaduto; ma sulla riflessione lucida e analitica. Sulla forza della ragione.
Riportando dati crudi, raggelanti dichiarazioni dall’Islam, cerca di aprire gli occhi agli Occidentali, stimolarli ad avere una reazione, più che ad accettare una placida sottomissione.
Recensione:
Perbacco, su questo pianeta nessuno difende la propria identità e rifiuta d’integrarsi come i mussulmani. Nessuno. Perché Maometto la proibisce, l’integrazione. La punisce. Se non lo sa, dia uno sguardo al Corano. Si trascriva le Sure che la proibiscono, che la puniscono. Intanto gliene riporto un paio. Questa, ad esempio: “Allah non permette ai suoi fedeli di fare amicizia con gli infedeli. L’amicizia produce affetto, attrazione spirituale. Inclina verso la morale e il modo di vivere degli infedeli, e le idee degli infedeli sono contrarie alla Sharia. Conducono alla perdita dell’indipendenza, dell’egemonia, mirano a sormontarci. E l’Islam sormonta. Non si fa sormontare”. Oppure questa: “Non siate deboli con il nemico. Non invitatelo alla pace. Specialmente mentre avete il sopravvento. Uccidete gli infedeli ovunque si trovino. Assediateli, combatteteli con qualsiasi sorta di tranelli”.
Fosse per me v’incollerei qui l’intero libro, perché affronta un concetto troppo esteso, pericoloso e grande per restringerlo in una striminzita paginetta che in due minuti viene digerita, smaltita e gettata via.
Sorvolerò la parte in cui Oriana risponde agli insulti e alle critiche, sorvolerò l’illustrazione del quadro storico passato che comunque torce le budella: non è divertente leggere delle loro gesta per “convertire”; specialmente quando ella racconta della chiesa di Santa Sofia e di come chiazzata di sangue è divenuta moschea. Perché io pensavo quasi che fossero arrivati in una chiesa vuota e avessero rimosso due cose per piazzarci le loro; beh, non è stato affatto così. Non è stato un pacifico trasloco.
Il lettore si ritrova a seguire l’itinerario di una triste partita a Risiko, in cui la propria civiltà viene brutalmente o talvolta tramite metodi pseudocivili rimpiazzata da quella islamica. E spesso ciò che terrorizza, inquieta più di tutto gli animi, sono le stesse parole delle personalità carismatiche mussulmane che loro buttano lì tranquillamente nelle interviste alla tv, senza che nessuno dica: “Un attimo: io a casa tua non vengo a rimpiazzare la tua cultura con la mia!"
Sbugiardando chi sostiene che il terrorismo islamico  è una frangia impazzita e che quindi non bisogna confondere i Bin Laden col popolo mussulmano, quest’ Aisha nata a Milano non a Kabul e cresciuta in Italia non in Afghanistan aggiunse infatti che Bin Laden agiva per conto e volere della Umma ossia del popolo mussulmano. Che per questo il popolo mussulmano lo amava, lo ammirava, come lei lo giudicava un fratello. (…) Sempre confermando ciò che dico io, ammise inoltre che i figli di Allah vogliono sottometterci. Conquistarci. Che per conquistarci non hanno bisogno di polverizzare i nostri grattacieli o i nostri monumenti: gli basta la nostra debolezza e la loro prolificità…
Parole che lasciano attoniti, che affermano che loro pacificamente ci invaderanno tramite nascite esponenziali.Che piano piano diffonderanno i loro valori in nome della libertà di culto, che però si fa sempre più unilaterale. In modo che un islamico può sminuire la fede di un europeo, ma questo non può contraccambiare se non rischiando grosso in tutti i sensi.
L’eretica dei nostri tempi ci mette al corrente delle manovre europee per venire incontro all’islamismo, delle Bozze d’Intesa che nessuno conosce e che barattano crocifissi e chiese in cambio di minareti, che vincolano il cittadino europeo al rispetto loro, ma nel contempo non lo tutela nello stesso modo. Lei ci mette in guardia, dicendo: “attenzione, che la mentalità che si portano dietro è colonialistica, non di convivenza pacifica e rispetto reciproco”.
Esiste un’organizzazione detta <<Parlamento Mussulmano>>, in Inghilterra, il cui primo scopo consiste nel ricordare agli immigrati che non sono tenuti a rispettare le leggi inglesi. <<Per un mussulmano il rispetto delle leggi in vigore nel paese che lo ospita è facoltativo. Un mussulmano deve obbedire alla Sharia e basta>> dice la sua Carta Costitutiva. (…) Vuole uno Stato che consenta di legalizzare la poligamia, sostituire il divorzio col ripudio, abolire la promiscuità dei sessi non solo nelle scuole ma anche nei luoghi di lavoro e sui mezzi di trasporto. 

E poi c’è il fattore Orwell: quel quadro allucinante di rivelazioni in cui sembra specchiarsi 1984. Escono fuori termini come “Eurabia”, che fa tanto “Eurasia”: l’amichetta dell’ “Estasia” e “Oceania” del celebre libro. Ci sono proposte di “riscrittura della storia”, in modo che venga studiata attribuendo tutti i meriti delle scoperte (compreso Illuminismo e Dolce Stil Novo) agli arabi.
Oriana (ormai dopo 5 libri letti mi viene da chiamarla per nome: come un’amica) ci illustra per filo e per segno la nuova Triplice Alleanza in Italia, composta da Destra, Sinistra e Chiesa Cattolica, che insieme giornalmente permettono a quest’invasione di fare il suo corso, tutelando tutti fuorché  i cittadini.
Oriana dice e spiega tante cose, ma tra le più agghiaccianti vi è il tentativo di traghettare l’infibulazione: quella pratica che non serve che v’illustri in cosa consiste, che un sacco di associazioni s’impegnano per portar via dai luoghi originari e che invece il Presidente dell’Ordine dei Medici della Toscana difende nella stessa Italia quando gli viene proposto di legalizzare una versione soft della stessa. Per la precisione risponde questo:
<<I problemi deontologici vanno messi da parte onde rispettare questo rito antichissimo. Personalmente sono favorevole a che il progetto del collega somalo vada in porto>>.

Avrei potuto aggiungere molto di più, ma probabilmente mi sarei solo persa in meandri sconosciuti. Non serve che io riporti un intero libro, se poi tutti si sentono appagati così e nessuno lo legge davvero. Va seguito con attenzione e spirito critico.
Ciò che ho apprezzato di più di questo, è che apparentemente potrebbe sembrare un inno alla disgrazia, un monito privo di misericordia; ma non lo è.  A parer mio invita semplicemente tutti a ricordarci chi siamo, da dove veniamo e che anche noi meritiamo di difendere la nostra identità. Che dovremmo renderci conto di quanto sia necessario il rispetto reciproco e non unilaterale per una convivenza civile.
E ricordarlo non solo a noi.
Il “saggio” malgrado gli spiacevoli avvertimenti, si conclude con uno sprazzo di ottimismo che lei trova l’anno stesso della caduta delle torri, guardando gli americani scesi a Times Square per festeggiare il capodanno: americani orgogliosi di esserlo, che nonostante le misure antiterrorismo ricostruiscono la speranza e non hanno paura.
Più che un incitamento all’odio è da definirsi un inno al coraggio, alla presa di coscienza. Coraggio che in qualche modo si è riversato in siti come 
thankyouoriana e simili. Un coraggio che non può tradursi in silenzio.
Vi saluto con un’ultima citazione, che non guasta mai.
Il declino dell’intelligenza è declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. (…) Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l’arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione.


Recensione: In un milione di piccoli pezzi, di James Frey

Voto: ****

Aspettatevi che una parte di voi vada in frantumi con questo libro. 
Il linguaggio di Frey è stringato, selvaggio, sovversivo anche in quanto a punteggiatura, dal momento in cui i dialoghi non hanno virgolette di sorta, cadono a pioggia come un flusso di coscienza e tuttavia non lo sono. Fanno parte della narrazione, s'impastano con essa. Non c'è bisogno di fronzoli in una storia scarna, essenziale in cui il mondo e gli avvenimenti sono resi in modo crudo disilluso e spietato, di uno spietato che fa bene all'anima. 
Il punto di forza di "In un milione di piccoli pezzi" è che non si può restare indifferenti, ci si amalgama con la sofferenza, con il dolore di morire dentro; un lato negativo è costituito da una certa ridondanza delle giornate che penalizza il fattore "avventura" e può farlo sembrare statico. È un romanzo puramente introspettivo, scritto con l'anima per persone realmente sensibili in cerca di emozioni stravolgenti e forti. 
Il protagonista è lo stesso James Frey all'età di ventitre anni con le sue dipendenze, fragilità, delusioni e ferite. Egli narra del suo periodo in una clinica di riabilitazione nel Minnesota; è finito lì dopo essersi ritrovato a bordo di un aereo senza sapere come ci fosse arrivato, in seguito all'abuso di svariate sostanze. Le droghe e l'alcool gli hanno distrutto la vita al punto tale, che se continua per la sua strada non arriverà ai ventiquattro anni.  
Significa sì?
Significa penso di sì.
Perché?
La mia vita è un Inferno, è un Inferno da troppo tempo. Se continuo così, muoio. Non sono sicuro di voler essere già morto. 

È dura. È terribilmente dura all'inizio, quando James, abituato a bere bottiglie di liquore ogni giorno e a fumare crack è costretto a restare pulito. È orribile perché non riesce a resistere a tutto quel dolore, orribile perché non riesce nemmeno a sollevare lo sguardo sullo specchio per guardarsi negli occhi. 
È una pugnalata leggere che i primi giorni lui si sveglia vomitando sangue e bile e che anche prima questo gesto rappresentasse la sua normalità ormai da tanto tempo. Come se il disfacimento fosse al limite e non potesse arrestarsi. Queste scene di vomito sangue e bile vengono descritte con perizia e particolare attenzione. Non tralascia nessun dettaglio e lo fa in modo netto, violento, che lascia un solco profondo nel lettore. 
È costretto ad affrontare prove disumane e tutto questo resta scritto, rosso su bianco. Come le operazioni ai denti rigorosamente senza anestesia alle quali egli si sottopone con coraggio e dalle quali esce sfiancato, senza capire o veder nulla per quanto annebbiato. A tal propposito, questa è una delle parti meno cruente:

Comincio a sentirmi male di stomaco. Sono attraversato da ondate di nausea. Mi viene freddo. Chiudo gli occhi e li apro e li chiudo un'altra volta. Lo faccio velocemente, lo faccio lentamente. Mi metto a tremare e fisso il sedile davanti a me e quello si muove. Comincia a parlarmi e allora guardo da un'altra parte e vedo luci azzurre e argento che ballano dappertutto. Chiudo gli occhi e le luci mi ballano dentro il cervello. Sento il sangue che arranca lento nel cuore e penso che sto per svenire e così mi afferro la faccia con una delle mani e mi strizzo la faccia. Fa male, ma voglio che faccia male perché rende reale questo incubo e mi impedisce di impazzire. Il dolore è immenso, ma ne ho bisogno perché mi impedisce di impazzire.

Nulla viene risparmiato; il protagonista è psicologicamente ferito e sono particolarmente disturbanti anche le parti in cui si  fa del male per compensare il caos mentale che lo assale insieme alla rabbia. Quella rabbia sterminata che lo colpisce da quando ha memoria e lo costringe a distruggersi totalmente per stare meglio.
Non riesce nemmeno a guardare in faccia i ricordi perché è tutto sfumato tranne lei: la ragazza dagli occhi di artico; il suo vecchio amore perso per colpa della Furia, delle dipendenze, del dolore che le ha inflitto. 
Lui pensa ancora ad occhi di artico, ma poi arriva Lilly e l'amore per lei spazza via il dolore, la delusione, la sensazione di essere solo un reietto, un rifiuto.
Descritta così sembra una bella favola destinata ad andare sempre meglio: il recupero, gli amici, l'amore, ma non è proprio così. Questo libro suda sangue, dolore e disperazione fino all'ultima pagina e fino alla fine  riservatevi il diritto di piangere. Frey ricalca la sua vita e si sa, la vita in quanto a crudeltà a volte supera qualsiasi fantasia. 
Vorrei scappare o morire o cadere in pezzi. Vorrei essere cieco e sordo e senza il cuore. Vorrei infilarmi in un buco e non uscire più. Vorrei cancellare la mia esistenza. Cancellarla via da tutti i cazzo di registri documenti archivi. Prendo fiato.