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mercoledì 22 marzo 2017

Dov'è il pulsante rosso?

Sto sudando l'anima in questo corridoio infernale e le pareti sembrano stringersi.
L'unica cosa che dovrei fare è premere il pulsante rosso.
Lo farei, se ricordassi qualcosa. Se solo ricordassi come sono finita in questo posto, i muri pieni di gigantografie di ricordi della mia infanzia.
Devo premere il pulsante rosso. So che c'è, ma non so dov'è.
Avevo gli occhi pieni di gioia: la potevi percepire come petardi, schizzare fuori dalle pupille pulite e ingenue. Le manine gonfie in un pugno che non è stato mai dato veramente.
Troppe volte quel pugno me lo sono data all'anima, invece di darlo a chi senza ritegno mi ha accoltellata ripetutamente, senza nemmeno chiedere scusa.
Quella era solo la prima immagine incollata alle pareti, impastate di disperazione, come un sudario.
La seconda.
Stavo sputando la minestrina, ovunque. I capelli corti e ricci, che sono rimasti tali finché c'era un sorriso da incorniciare, poi hanno ceduto anche loro, delusi, verso il basso, come la mia bocca.
Anzi, purtroppo la mia bocca piega in una direzione falsa, accenna un sorriso anche quando avrebbe voglia di vomitare merda.
Ho una bocca fasulla, sfregiata a forza da un ironico destino, verso l'alto.
O forse le mie labbra inconsapevolmente credono ancora in qualcosa.
La terza.
Stavo cercando di usare il girello, in una maniera che nemmeno gli stambecchi zoppi... ok, avete capito, più o meno. Non importa.
Non c'è nessuno, in mezzo allo zolfo, che possa capirmi.
Dov'è il pulsante rosso?
La pelle mi fa male per il dolore, il sangue addosso è colloso, prude e voglio grattarmi fino a che non si stacchino le croste. Voglio concedermi di cadere a pezzi.
Le foto sono coperte da (vernice?) rossa, come se avessi cercato di cancellarle con degli scarabocchi. Sono stata io? Con cosa?
Lo sguardo vacuo, spento come quello delle mucche al mattatoio.
Non voglio chinarmi a vedere se ho le mani sporche.
Oltre gli scarabocchi, tre grossi no, enormi quanto le gigantografie.
Wrong.
E questo è solo l'inizio: l'immenso corridoio fa girare la testa, pieno di vernice densa, rossa e pesante. Altri ricordi distrutti.
Mi sono pisciata addosso e ciò mi fa sentire putrefatta. Il puzzo del piscio impastato alle ferite è come una botta in testa.
Gira tutto.
Ditemi dov'è il pulsante.
Non voglio andare avanti.
Il mio corpo è in brandelli dal terrore, lo chiamo e non risponde più.
Muovo cinque tremanti passi.
Non bastano.
Altri cinque...
Qui ero in un bosco, posso sentire ancora l'aria frizzante lambirmi in una danza selvaggia.
Il mio cappottino profumato, come quello di tutte le bambine.
Perché le bimbe crescono e poi diventano diverse?
C'erano dei giochi di legno, costringevo i miei a passarci le ore.
Quanto mi piacevano quegli alberi...
Avevo sei anni, in quel bosco non è rimasto un ciuffo vivo. Hanno abbattuto qualsiasi cosa.
Non vedo come avevo i capelli: una spaventosa macchia rossa, colante, sfregia l'intera faccia.
Inghiotto fiotti di sangue, sangue che denso risale e mi costringe ad andare avanti, tremante.
Se avessi un'anima scapperebbe adesso terrorizzata. È troppo da sopportare.
Il corridoio è pieno. Pieno di vernice rossa ovunque, ovunque "NO" a caratteri cubitali sulle uscite al mare, i compleanni, le gite, i fuochi d'artificio, le carezze, gli abbracci, ogni minimo residuo di calore.
Girando più volte su me stessa, tremando, cagandomi addosso, perdendomi anche se la strada è una sola in rettilineo, trascinando il mio povero essere nello strazio di vedere e rivedere ciò che è stato, fino alla nausea, fino a perdere i sensi, giungo in fondo a quel corridoio che sembrava non finire più.
Tre immagini sono immacolate, in evidenza. Il caos non le tange. Non una firma, non una scritta, non una sbavatura.
Risoluzione perfetta.
Nitide.
Una sequenza di lavori persi.
I tradimenti. I tradimenti. I tradimenti.
Colleghi, amici, uomini che amavo e mi hanno sparato al cuore con leggerezza. Poi hanno preso ciò che restava di me, di una me sanguinante e incerta e l'hanno ridotto in poltiglia.
Esposti in bella vista, i miei fallimenti.
I brividi di freddo mi mettono in ginocchio, urlo di dolore per le infinite volte in cui il gelo della solitudine mi ha fatto cigolare le ossa, come quando violenti una forchetta contro il piatto, fino a che non ti sanguina l'orecchio.
Fa così freddo che la pelle non è più croste; è polvere.
Gli organi esposti, le infezioni.
L'ultima foto.
Sul fondo del corridoio.
È una via d'uscita, è una porta trasparente che dà su uno splendido giardino.
Ma è un'immagine. Non posso aprirla.
C'è solo, a terra, un colossale pulsante rosso.
Raccolgo le ultime forze e lo pigio con rabbia.
Proprio mentre lo faccio, una figura mi scavalca e apre la porta d'uscita disegnata...
Lo sconforto mi è padrone...




Nessuno seppe mai come fece.
Un olezzo rivoltante infestava la stanza.
La trovarono con la pancia aperta.
Le budella rivoltate sopra un album di foto.

venerdì 17 marzo 2017

Recensione: Il tempo e la felicità, Luciano De Crescenzo

Voto: Tre stelle e mezzo 

Trama: Il protagonista abita a Roma in via dei Fori Imperiali. A una certa decide di mettersi a scavare in cantina per vedere cosa trova, fino a quando, preso dalla foga, non rende la piccola buca un vero e proprio cantiere di scavi abusivi. Egli rinviene dei reperti importanti nonché i papiri in cui Lucilio, allievo di Seneca, rispondeva alle note "Lettere a Lucilio". 
Aiutato dall'impavida Alessia e dal suo fidanzato Enrico il papirologo, riuscirà a decifrare le lettere. Luciano e Alessia si ritrovano a leggere la corrispondenza epistolare tra i due filosofi e si divertono a commentarla, mentre il tempo passa e la felicità resta un obiettivo incerto e complicato, ma fa parte del gioco.

Recensione: Gradevole, senza rischiare di diventare troppo pesante tra un botta e risposta e l'altro; lo scambio tra i due filosofi, ricco di significati profondi e consistenti, viene alleggerito dalle discussioni più terrene e pratiche di Luciano e Alessia che s'improvvisano filosofi moderni e si divertono a prendere le parti dell'uno o dell'altro. Molto carini davvero, danno né più né meno l'impressione di due amiconi che al cinema si danno gomitate commentando il film, neanche fossero compagni di merendine.
Ma vi spiego com'è nata la loro amicizia dalle fondamenta: Luciano comincia a scavare in cantina e a un certo punto si accorge di avere bisogno di un parere di un professionista, o quasi. Qui cerca l'aiuto di Alessia, che partecipava già a degli scavi ufficiali poco distanti da lì; le mostra la sua collezione di ritrovamenti e lei inizialmente non approva, poi divertita dal rischio si fa complice e non lo denuncia alle autorità. Solo che per rimettere in sesto i papiri hanno bisogni di Enrico, uomo tutto d'un pezzo e forse troppo all'antica per Alessia.
Tra il maestro e l'allievo delle lettere, salvo varie sfumature che non mi tornano, preferisco l'allievo. Lucilio ha una visione più dinamica della vita, che si pone fortemente in contrasto con l'impassibilità che Seneca raccomanda in continuazione: chiede di non mischiarsi ai banchetti, a ciò che il popolo comune fa, ma le risposte che riceve sono altrettanto di carattere e a tono. L'allievo si pone sempre per la mediazione, per il godersi i piaceri della vita senza giungere agli eccessi ma evitando il fastidioso moralismo, che spesso impone l'assurdo. Come se i due si potessero suddividere tra l'idealista e il realista; Seneca si sforza troppo di sembrare fuori dal mondo, rispetto a un Lucilio che, è più disposto a patteggiare e analizzare le situazioni.
Lucilio mi ha colpita tanto quando, in risposta all'invito a fingersi povero per qualche giorno e di vivere umilmente, così da essere pronto in caso tempi peggiori dovessero sopraggiungere, rifila una stoccata cruda e tagliente: atteggiamento con il quale smaschera diversi consigli che denotano una certa ipocrisia di fondo:

A mio avviso, infatti, il problema non sta tanto nell'avere davanti un pollo farcito o un tozzo di pane duro, quanto nell'avere all'interno del proprio animo la consapevolezza di essere ricco o quella di essere povero. Che io mi alzi da tavola con la fame, quando so benissimo che, volendo, potrei mangiare tutto quello che mi pare, non serve assolutamente a nulla. Al massimo potrebbe essermi utile per mantenere la dieta. Come a dire che, per vivere da povero, bisogna essere sul serio poveri, e provare a vedere, almeno una volta nella vita, i propri figli invocare con le lacrime agli occhi un tozzo di pane e non avere di che sfamarli. Solo questo tipo di sofferenza, credimi, può irrobustirti l'animo. 
Ho gradito davvero la forza emotiva dell'allievo, che nonostante non sia più giovane,  conserva in sé un certo spirito di contraddizione, una propria irruenza. Più Seneca intima a questo mare di placarsi, più generalmente riceve un: "Sì, ma..."
La stessa "conflittualità" si conserva nel rapporto insegnante/allieva, dove più Luciano cerca di spiegarle la vita, più riceve persino rimproveri che danno corpo a leggeri battibecchi. 
Simpatici i punzecchiamenti, ma soprattutto puntano al cuore i messaggi universali e viscerali che emergono dalle pagine: sta alle singole persone assorbirli e farli fruttare secondo la loro anima, farli risuonare mediante la vita.
Come se il tempo non fosse mai passato, come se fosse solo un'idea.
Il nucleo dell'essere umano dai tempi di Seneca e Lucilio non è cambiato affatto: gli stessi temi angosciano l'uomo contemporaneo; forse anche la felicità è già stata scoperta da qualcuno e si nasconde in qualche angolo, tra le pieghe del passato che in realtà non passa. 

Ora mi chiedo: a che serve essere l'imperatore del più grande impero del mondo se poi si è costretti a vivere nel terrore? Vuoi vedere che è meglio essere povero e alla fine morire tra le braccia di un amico che ti vuole bene? Addio


giovedì 9 marzo 2017

L'anomalo Anomalisa.





Voto: Due stelle e mezzo.
Non sono mai stata una sadica. Non sparo a zero, non faccio stroncature, ma non mi dovete far incazzare.
Cercherò di essere specifica sul perché sono rimasta delusa da un film che dal trailer prometteva di essere davvero spettacolare. Tutte queste cinque stelle se l'è perse per strada.
Dal punto di vista tecnico è ben strutturato: non mi ritego una fan accanita dello stop-motion, ma è ineccepibile. Ambientazioni e personaggi sono ben resi e meritano gli svariati premi ricevuti, ma non sono loro il problema: il tallone d'Achille è la storia, non tanto perché lasci con l'amaro in bocca, quanto per il fatto che non conduca davvero da nessuna parte. Se è vero che ciascun film è un viaggio, il protagonista non si è mosso da casa. Sta ancora facendo le valigie. 

La trama: Michael Stone, autore di manuali per la gestione ottimale dei clienti, vola a Cincinnati dove l'aspettano per una conferenza. Ha un grave problema che non osa confidare: per lui tutte le persone non hanno identità. Letteralmente: hanno lo stesso viso e la stessa voce (maschile, asettica), si tratti di donne, uomini o bambini. La sera prima del meeting, per caso s'imbatte in Lisa: ha un suo viso, ha una sua voce. È l'anomalia miracolosa che aspettava da sempre?



IL TRAILER

Recensione: Forse sarebbe meglio dare un voto al trailer, che all'intero film. Proprio fatto bene (il trailer), racchiude perfettamente i concetti chiave, i presupposti che nel corso della pellicola vengono traditi uno ad uno e presi a coltellate brutalmente.
Eh niente... sia "Il ladro di orchidee" che "Se mi lasci ti cancello" -scritti come Anomalisa da Charlie Kaufman- mi hanno strappato un pezzo di cuore, non  capisco proprio cosa sia andato storto stavolta. 
Sarebbe stato piacevole trovare in tal film una sorta d'introspettività, invece è un vicolo cieco: una volta attraversato non c'è un muro, ma proprio il nulla più totale. 
Ci si accorge fin dall'inizio che l'intera faccenda è sinistra e inquietante: ogni personaggio, dai bambini alle donne, ai cani, parla con la stessa voce identica, da uomo. Grottesco, geniale... ma adesso continua. 
Lui è un po' annoiato e/o scocciato dall'intero ambiente che lo circonda, la gente intorno viene percepita più che altro come un increscioso spreco di ossigeno e non fa niente per nasconderlo. Fino a una certa l'ho anche compreso, perché se io prendo un taxi o mi faccio portare le valigie in camera da un facchino, magari non mi aspetto né voglio che per tutto il tempo mi consigli punto per punto cosa fare per l'intera mia permanenza. Gli sconosciuti riconosco che sono molesti, poi con quel timbro lì... sorvoliamo. 
Sprofondiamo nell'altezzosità totale quando in hotel lo chiama la (povera) moglie (hanno anche un figlio) per avere sue notizie, al che viene seccata con poche frasi ben assestate, della serie "lo sai che non mi devi fracassare i maroni quando sto aspettando la cena del servizio in camera" (non è stato così fine, ma l'atteggiamento lasciava a immaginare). Quindi, a dimostrazione più che coerente del voler restare da solo a godersi la quiete, decide di cercare una vecchia fiamma abbandonata dieci anni prima. Lei, ancora innamoratissima e speranzosa, acconsente a vedersi ma sapete... ha quella voce così fastidiosa e molesta; appena lei lo mette di fronte ai suoi errori esposti in bella vista, il nostro protagonista comincia ad andare in tilt e rispedirla da dov'è venuta nonostante lei avesse dei sentimenti ancora palesemente accesi nei suoi confronti.
Quindi insomma, la noia mista al tedio e fardello di essere così tremendamente straordinario rispetto agli altri poveri esseri umani che non capiscono niente, lo conducono di nuovo verso la sua stanza. 
Si è quasi arreso, quando nel corridoio avverte una voce fuori dal coro: l'unica che suona diversamente dalle altre, infatti questa almeno è da donna... mi ero leggermente stufata a sentire sempre lo stesso timbro in falsetto. Finalmente, direte voi, meraviglioso: abbiamo la soluzione al dramma. 
Esaltandosi per il fortuito incontro, la invita a bere qualcosa nella sua stanza. Ok essere l'insicurezza fatta femmina, ma ci tiene minimo minimo dieci minuti in corridoio per decidersi a dirgli di sì. Appena i due si ritrovano soli, impiegano altri tre quarti d'ora anche solo per capire di cosa mettersi a parlare...e in maniera più generica sembrano non sapere proprio dove stia di casa avere una relazione. Insomma avete capito: flemmatici in tutto e in più lui convince lei a cimentarsi in una versione di Cindy Lauper che non vorrei udire mai più. Sorvolando la triste lentezza di entrambi, siamo comunque contenti per lui che si sia sentito capito...
Invece, il giorno successivo in cui stanno già facendo milioni di programmi insieme per la loro vita futura (e la moglie? E il figlio?), lui la osserva bene mentre fanno colazione. E lei è fastidiosa. Molto fastidiosa. E comincia a cambiarle la voce. Sta diventando spaventosamente simile a quel timbro che è costretto a sentire ovunque. 
Quindi insomma, il nostro brav'uomo, gettando palle e coerenza in un tritarifiuti nel contempo, decide alla fine di fare il padre di famiglia, restando con la moglie a cui pesa la testa per quel bel cesto di corna che si porta appresso. 
Ricapitolando: si è stufato di una donna in un giorno all'incirca e non ha nemmeno il coraggio di dire alla moglie che è un idiota. Ma tanto lei lo ha capito e fatto capire allo spettatore, da quattro occhiate che gli ha lanciato. 
Tanti saluti alla comunicabilità, all'ipotesi che possa esistere qualcun altro in grado di comprenderlo.
Le premesse del trailer, ottimo specchietto per le allodole, vengono tradite una ad una. In primis quella di valorizzare ogni essere umano. Viene sfruttato questo punto di partenza, il presupposto di cercare il dettaglio che rende speciale ciascuno, mentre le vite dei personaggi vengono appiattite tutte tranne quella di Anomalisa, valorizzata anch'essa fino a un certo punto.  Detto molto per le spicciole: alla fin fine sono solo parole: il protagonista non cerca realmente il dettaglio che valorizzi le persone, anzi fa esattamente il contrario. L'unica vita di cui realmente gli importi qualcosa è la propria; gli altri sono un contorno.
Anche le stesse riflessioni esistenzali sono egoistiche: Michael Stone si pone domande solo ed esclusivamente riguardo il suo dolore e finge di porsele nei contronti degli altri. Risulta erroneamente altruista con i propri consigli e manuali; è il primo a dare veramente poco e pretendere parecchio.
Il comportamento del protagonista è giustificato dalla Sindrome di Fregoli (lo stesso hotel in cui alloggia si chiama Fregoli), che è una rara malattia psichiatrica da cui è affetto.

I pazienti con la sindrome di Fregoli si convincono che le persone che li circondano siano sempre la stessa, che assume aspetti diversi per perseguitarli. " È un fenomeno molto raro, ma, a dispetto del nome, molto drammatico. Le persone colpite sono talmente immerse nel loro delirio da diventare talvolta aggressive", spiega Massimo Biondi, specialista in psichiatria all'Università di Roma La Sapienza.  
La sindrome di Fregoli non è l'unico disturbo psichiatrico che viene in mente guardando Anomalisa. Nella sindrome di Capgras, detta anche "delirio dei sosia", ci si immagina che le persone con cui interagiamo siano state sostituite da impostori. "Abbiamo avuto un paziente convinto di essere circondato da robot. Un'allucinazione durata una settimana, poi riconosciuta come tale", continua Biondi. In Anomalisa i volti di tutti i personaggi sono solcati da fessure, come fossero il risultato di pezzi di metallo incastrati. Durante una lunga sequenza onirica (qui commentata dai due registi) il viso del protagonista si stacca dalla testa, come un paraurti montato male.
Clicca per leggere l'articolo integrale 
È resa bene la Sindrome, reso bene l'espediente della voce unica, dei sosia/robot, ma non è quello il punto.
Il punto è che una malattia, se si è persone realmente introspettive e/o oneste, non la si affronta sfruttando gli altri come se fossero cose, facendogli credere di essere importanti e poi gettandoli via. Un comportamento tale denota un'immaturità di fondo diversa.
Tale film è come affermare che, se si ha il disturbo psichiatrico adeguato, si è autorizzati a distruggere una famiglia (sarò un po' all'antica, ma anche se torna con la moglie, una notte in hotel con un'altra la famiglia la distrugge e poi come), i sentimenti e le vite altrui.
Posso comprendere che il protagonista si senta frustrato, deluso, distrutto e decisamente per niente appagato nel relazionarsi con il prossimo, ma quindi che facciamo: se un uomo è affetto da un disturbo omicida, lo mandiamo ad ammazzare la gente perché poverino è malato?
Nemmeno si può dire che Michael ne esca diverso: alla fine opta per la via certa, tanto il mondo è meccanico e indifferente, come se le persone non possedessero l'anima. L'unica cosa su cui fortunatamente è convenuto è di non fare cambiamenti epocali per non far danno.
Ad ogni modo credo che Kaufman sia riuscito nell'intento di lasciare sgomenti/sollevare polemiche. Su questo non c'è il minimo dubbio. 

mercoledì 1 marzo 2017

Per Matteo

Da quando non mi si vedeva per terra, quindi credo che in fin dei conti non sia cambiato nulla in nessun senso, ho cominciato ad avere il terrore delle incomprensioni. La testa si riempie di "perché". Perché mi hanno urlato contro solo perché dicevo la mia, perché mi giudicavano perché mi comportavo in tal modo. Perché perché perché.
Penso sempre che la società sia troppo superficiale e impieghi veramente poco a deviare un infante: t'impongono che sbagli a pensarla in un modo, che devi avere paura a dire tal cosa, che tanto non ti capiranno. Così da bambina sfacciata ed estroversa, a forza di "colpi di frusta" sono divenuta gelosa dei miei pensieri, li stipo tutti dentro la testa affollata. Non escono mai. 
Sapeste il nervoso che mi prende quando non si capisce ciò che intendevo. Sono ferite passate presenti e future, le incomprensioni. Hanno avuto sempre uno strano filo conduttore: come una corda intrecciata da una maestra, poi lanciata a una compagna di banco, fino a propagarsi nel gruppo di amici, nelle relazioni, nel lavoro.
Tante volte non dico ciò che penso, perché mi terrorizza che gli altri non capiscano ciò che intendevo. 
Temi così delicati pertanto non li affronto mai, ma è da giorni che voglio scrivere a proposito della speranza. E spero che nessuno capisca diversamente da ciò che volevo comunicare. 
Proprio ieri sono rimasta colpita da un articolo (leggilo qui) di un ragazzo che ha deciso di vivere, anzi ha paura di morire. 
E lì per lì ho pensato solo che avrei voluto solo scrivergli e complimentarmi, ma prima che arrivi l'equivoco mi spiego subito: non è questione di essere più bravi o meno di chi sceglie l'eutanasia, anzi sono decisioni che rispetto perché io stessa non so come reagirei, con la mia stupida abitudine di vedere tutto nero. 
La mia indignazione parte invece dal leggere sui social commenti che accusano chi ricondivide l'articolo di moralismo. Mi fanno cadere la mascella gli attacchi gratuiti a un ragazzo che, come chi lotta per un sollievo con la morte, sta lottando per l'inversa causa.
Si sta perdendo completamente il senso della morale. Il mondo si deve riprendere un attimo, perché quando una persona sta già cercando di vivere a pieno con i propri enormi problemi, la si dovrebbe aiutare e sostenere a prescindere che la sua scelta sia la vita o la morte.  Non che se è la morte allora ha fatto benissimo e se è la vita allora la scelta è da criticare. Chiedetevi a questo punto, se l'umanità è realmente umana, perché difendere il diritto alla morte non significa ostacolare il diritto alla vita. 
Ma l'italiano medio come sempre deve farne un minestrone per dimostrare agli altri che è capace di partore un pensiero. Un applauso allora. 

Per svariati minuti dopo la lettura ho pensato a Matteo, che gli avrei voluto scrivere, perché non è colpa di nessuno se non tutti se la sentono di continuare a vivere; pensate che c'è chi si suicida per minuzie in confronto. Gli avrei voluto scrivere che mi ha fatto sorridere, ma non per la storia dell'appello a Dj Fabo, di cui rispetto la scelta; mi ha fatto sorridere perché fino a un attimo prima c'erano migliaia di pensieri che mi affliggevano e che pensavo fossero ostacoli insormontabili, invece mi ha fatto vedere la speranza. Volevo solo ringraziarlo, perché ho trovato in lui una fiamma così incandescente da ravvivare la mia che tende a traballare. E che spero continui ad ardere, perché gli è stato dato un dono grande: la forza di mostrare alle persone che non bastano i problemi, non basta la crisi con la mancanza di lavoro, non basta un amore mancato, non basta un errore a toglierci il futuro. Mi ha fatto capire che siamo noi, fino all'ultimo, a decidere se il futuro c'è o meno; non il futuro che decide all'ultimo se manifestarsi a suo piacimento, come un'anguilla che sfugge dalle mani. Spero di tenere bene a mente, che una strada può esserci sempre se la voglio con tutte le mie forze.
Grazie per avermi insegnato che guardo la mia vita dalla prospettiva sbagliata. 

Il blog di Matteo

Recensione: Ciò che Inferno non è, di Alessandro D'Avenia

Voto: * * * *
Trama: L'occhio analitico e introspettivo dello scrittore presenta Palermo negli anni '90: c'incanta con la figura di Don Pino Puglisi e con le storie dei numerosi giovani che hanno interagito con lui. 
È il 23 maggio del '92 , giorno in cui dei ragazzi assistono dalla piscina, al telegiornale che mostra l'attentato a Giovanni Falcone. 
Federico -uno dei ragazzi, che talvolta funge da narratore interno- resta così stupito dalle opere di Padre Pino Puglisi, che a soli diciassette anni decide di non partire per l'Inghilterra, al fine di aiutare il sacerdote con le famiglie di Brancaccio, oppresse dal macigno della mafia. La strada verso la verità non è sempre la più semplice; anzi è una lotta continua, di cui gli innocenti portano i segni sulla pelle. La via per imparare a non avere paura è la più impervia e lunga. Federico, dal suo nido protetto e ovattato, è costretto a guardare il mondo per ciò che è effettivamente; ad abbracciare la vita per la sua bellezza ma anche per le brutture e atrocità di cui è capace. 

Recensione: Non è la prima volta che ho a che fare con un libro di Alessandro D'Avenia. È uno dei rari scrittori che seguo fedelmente ogni volta che usa la penna da qualche parte. No dai, non così stalker, ma avete capito. Difficilmente resto incollata e fedele storia dopo storia, ma lui riesce a tenermi lì. Ci riesce perché è interessante, è profondo, sa farmi ritrovare il filo di me stessa, la speranza quando la perdo. 
Egli pone sempre in punta di piedi tematiche difficili e spinose, le getta davanti agli occhi del lettore come fossero una piuma, quasi con l'innocente e terribile onestà dei bambini. Dà a ogni cosa il giusto nome e quel nome si punta in testa come un chiodo: presenta gli avvenimenti in maniera cruda ma nel contempo poetica. Ciò che mi stupisce sempre dell'autore è che, senza edulcorare gli avvenimenti, riesce a renderli sacri, solenni e ciò vale tanto per un attentato, quanto per la visione di un tramonto. 
È come se trovasse la cornice perfetta per ciascun quadro/scena, così da convincerti a guardare a prescindere dall'argomento. Sa aprire le giuste finestre, in modo che diventi quasi matematico che qualcuno si affacci per curiosità. La qualità più grande che noto in lui è l'innata capacità di valorizzare qualsiasi cosa, fino a renderla sontuosa e irresistibile. Anche una scena trasandata e trascurabile, con lui raggiunge il fascino di una donna in vestito da sera: tu guardi lì, sei attratto dalla sua visione del mondo neanche fosse una calamita. 
Per rendere ancor meglio il concetto: dove punta il dito, gli altri guardano senza fiatare. Se da un lato della strada ci fosse il Presidente degli Stati Uniti a passeggio e dall'altro una foglia che cade e D'Avenia volesse portarvi a fissare l'attenzione sulla foglia, vi assicuro che ci riuscirebbe. 
Prima di entrare nel vivo della storia andiamo a conoscere Palermo. La città è caratterizzata nel dettaglio dalle increspature del mare, all'arte, agli odori, alle ingiustizie. Ne scaturisce un quadro poliedrico e sfaccettato in cui nessun dettaglio va perso; tuttavia un'indagine così minuziosa, un quadro così fedele, finisce per penalizzare la narrazione nella fase iniziale, che appare lenta. Scorrono molte pagine prima di giungere al cuore vero e proprio della storia, però l'attesa come immaginavo vale la pena. 
I temi principali e ricorrenti sono l'amore e il coraggio, destinati ad accarezzarsi e rincorrersi fino allo sfinimento. Vengono posti interrogativi impietosi, a cui molti sono necessariamente chiamati a rispondere, senza mezzi termini, con la vita. 
È il caso di Padre Puglisi, che pur di non piegarsi alle minacce continua con la sua missione: salvare le persone, ma soprattutto i ragazzi. Quelli disperati, quelli persi che a forza di cercare la via nel buio si sentono abbandonati e si lasciano fagocitare da quelle fauci nere. Tutti gli oppressi che, non avendo mai conosciuto l'amore, sanno solo opprimere e distruggere a loro volta. 
Federico ha un carattere puro e incontaminato, vive a Palermo in un quartiere sereno. L'animo sognatore e poetico che alberga in lui, va in tilt appena si scontra con la realtà cruda di Brancaccio: il quartiere che non sogna, il luogo che squarta l'anima dei propri abitanti, che riduce i sogni in cenere. Perde una bicicletta, prende un pugno in faccia, ma trova l'amore. 
Egli promette di ricavare un attimo per aiutare il sacerdote prima di partire per Oxford e all'improvviso ne esce cambiato, non vuole più partire. 
Don Pino lo porta con sé a trovare delle famiglie e in una casa c'è la bellissima Lucia, ragazza molto più pratica e disillusa. Per lei i sogni sono più difficili da realizzare, il successo è da costruire a partire da una vita di stenti. Il suo luogo è controllato da Cosa Nostra, i cui rappresentanti prendono i soprannomi di Cacciatore, ’u Turco, Madre Natura e rispondono alle sue leggi.
Lo scambio tra i due giovani è interessante, perché lui le insegna ancora a credere nei sogni e lei lo porta con i piedi per terra, gli fa vedere ciò che deve vedere e non solo ciò che vuole vedere. Lui che vive di sole parole, con la sua presenza si riempie di realtà e lei impara che le parole non sono promesse vuote, ma hanno una loro anima. L'equilibrio che si genera tra i due è intenso, vero.
Lo scrittore utilizza, per trattare l'emozioni, la stessa sensibilità con cui rende i paesaggi:

Il suo modo di ridere e di fare le pause mi mette le mani dentro l'anima. Me la fruga e ne spalanca le zone vuote. La sua presenza mi dà possesso di me stesso. Più la guardo, più desidero avere qualcuno da perdere, qualcuno per cui piangere, con tutto il dolore che comporta mettere qualcuno nel cuore del proprio cuore. 
La figura di Don Pino è paterna. Così immensa da abbracciare coloro che si sono persi. Come se "tutto porto", mantra ricorrente nelle descrizioni che D'Avenia fa di Palermo, fossero in realtà le sue braccia. Braccia dove la disperazione approda e trova qualcuno ad attenderla e placarla.
Il libro manda un messaggio forte: la più grande rivoluzione è l'amore, tanto che Don Pino replica alla morte con un sorriso. La violenza non è la soluzione, pone solo altre domande che avranno sete di risposte, sete di altro sangue e così via. Si riduce tutto a un circolo di prigionia. Ciascuno invece ha bisogno di essere amato. La speranza non è un bene per pochi.

E in quello sguardo loro vedono se stessi com'erano da bambini, il Cacciatore aveva un altro soprannome: Ricciolino. Era il nomignolo con cui lo chiamava sua madre. Quel sorriso lo riporta lì, quel sorriso gli dice: non sai quel che fai, tu sei altro. Quel sorriso è il castigo peggiore che possa capitare a un assassino, e il Cacciatore non potrà più dormire la notte. Ci sono delitti che cercano i loro castighi e finiscono col trovare solo il loro perdono.