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lunedì 26 dicembre 2016

Caro 2017


Infinite volte durante l'anno, valuto di appendere la penna al chiodo. 
Perché con il lavoro ho poco tempo, perché con la stanchezza addosso, buttare giù due parole è troppo difficile (non è vero, porca miseria. La mia Oriana scriveva anche senza dormire o dormendo veramente poche ore), perché tanto ciò che penso non ha importanza, perché tanto non mi legge nessuno.
Ho sempre trovato più facile scoraggiarmi, che tentare di andare avanti... ma poi mi sono resa conto, che il mio istinto di sopravvivenza è più forte di me e vuoi o non vuoi trova sempre un modo, sempre una strada nuova. Anche al costo d'impiegare all'incirca un milione di anni.
Non credo esista una scusa reale per non fare ciò che si vuole. Ciò che si vuole ha sempre un prezzo; semplicemente decidi di pagarlo o meno... e mi sono resa conto, che qualsiasi cosa accada, la scrittura ce l'ho in vena. Non nel senso che sono così spaventosamente brava, che il mondo se non scrivessi andrebbe in perdita; anzi, forse ci guadagnerebbe anche.
Semplicemente mi scorre dentro, ne ho bisogno. Rinunciarci è come soffocare una parte di me; come se domani mi svegliassi senza voce.
Spesso e volentieri mi sento una pezza e penso che questa cosa di cominciare a scrivere sia stata una spaventosa cazzata, almeno per la mia vita; almeno per me. Che per avere sogni, in definitiva bisogna non essere me. 
Poi però accadono sempre cose che mi portano a riflettere seriamente, come il mio ragazzo che spesso e volentieri si sfoglia la mia pagina Facebook e ricondivide i link, una mia cara amica che riposta gli articoli del mio blog come se avessi scritto chissà che.
Ogni volta che penso che la mia vita è troppo pesante, apro Facebook e mi ritrovo davanti una foto di Martina e mi rimangio tutto con le lacrime agli occhi, chiedendo scusa.
Ogni volta che ricevo questi calci in culo, decido che voglio farcela a far tutto e che non mi posso arrendere solo perché non tutto è andato come volevo. Anche perché la vita ti raggiunge e ti porta dove dovevi stare, ne ho avuto la prova quest'anno: puoi scappare dal tuo destino, giocare a nascondino, ma ti troverà sempre. Per fortuna. 
Se dovessi tirare un bilancio -tanto sapete benissimo che lo farò-, dal 2017 non posso chiedere altro... ok sì, un'ideuccia ce l'avrei, ma forse credo sia correre troppo... forse.  
Il 2016 è stato un anno così frenetico, in cui sembrava che il cielo dovesse piovermi addosso. Credevo fosse solo una valanga di lacrime; invece in fondo a questo tunnel, mi aspettava un sorriso. Mi aspettava calore umano.
E mi commuovo quasi, perché ero abituata a morire in silenzio, a leccarmi le ferite in un angolo da sola. Avevo il terrore di lasciarmi affondare tra le braccia di qualcuno; avevo paura che si approfittassero delle mie debolezze; avevo l'angoscia di non svegliarmi viva. Invece svegliarsi dal dolore protetti, senza ulteriori ferite,  guariti, è magico. È ciò che sta rendendo magico il mio Natale e la mia esistenza.
Posso solo ringraziare commossa, per tutta la gioia e la luce che c'è.

E sì, regalo mio, voglio ringraziare anche te.
Ti ringrazio perché prendi a ridere a crepapelle all'improvviso e cambi colore, perché non arrivi vivo a mezzanotte che stai già mezzo dormendo, ma questo tuo modo di essere ti porta a capire la mia stanchezza anziché condannarla o sfruttarla. Ti ringrazio perché mi guardi con quegli occhi che sembrano rimettere a posto la confusione che c'è in me. Ti ringrazio perché non mi accarezzi la pelle, ma l'anima intera. Ti ringrazio perché riesci a riempire i miei buchi neri, che hanno sempre fame. Ti ringrazio perché ti distrai e non segui quello che ti sto dicendo, ma sai già quello che vorrei dire e tante volte mi resta in gola. Ti ringrazio, perché mi aiuti a tirare fuori le cose, prima che mi uccidano.
Però tutti questi grazie sono troppo pigra per darli: facevo prima a ringraziare quella forza fantastica e misteriosa che ti ha messo qui, a curare questa ragazza interrotta.
Auguro a tutti buon Natale e buone feste. Le stesse feste che sto passando io. 

venerdì 2 dicembre 2016

Recensione: Harry Potter e la maledizione dell'erede


L'ultimo arrivato in casa Potter non ce lo saremmo aspettato. 
Graditissima sorpresa; speriamo solo che la saga non diventi come gli "Alla ricerca della Valle Incantata" che minimo sono arrivati ad essere in tredici. Non scherzo, Wikipedia insegna.
Definirlo leggero sarebbe esagerato, ma ha un andamento molto meno serrato dei classici Harry Potter, vuoi per l'impostazione teatrale, vuoi perché vengono a mancare le minuziose descrizioni della Rowling e la solita pomposa battaglia finale.
Abbastanza diverso da quello a cui siamo abituati, ma veramente gradevole.
La storia ruota intorno ad Albus Severus Potter, secondogenito di Harry -nonché pecora nera della famiglia- e Cedric Diggory.
Si sospetta che ci sia in circolazione una giratempo ancora intatta e il padre di Cedric supplica Harry Potter di riportarlo in vita, ma egli si rifiuta per non sconvolgere il passato.  Albus Severus, anche per una rivalsa personale decide di prendere a cuore la questione, trascinando in giro per il tempo il fedele amico Scorpius -figlio di Draco Malfoy- e la cugina di Cedric, Delphi.
Questa volta ho tifato per i Malfoy. A parte che non ci sono tali divisioni, però stavolta il figlio di Draco è riuscito meglio. Brillante, spiritoso, modesto. Il suo difetto più grande è probabilmente l'essere troppo di cuore e facilmente influenzabile dalle persone a cui tiene. Infatti Albus lo convince a fare di tutto e di più. Il ragazzo ha un carattere dominante tra i due. Forte ma un po' presuntuoso e troppo pieno di orgoglio e rancore per vedere cosa rischia di provocare con il suo piano: intende dimostrare di essere all'altezza di Harry, ma nel cercare la sua strada sbaglia in maniera vistosa.
Nonostante le semplificazioni sono rimasta incantata da alcuni passaggi, che m'imprimerò nel cuore. Ci sono dei punti in cui gli stessi Ron, Hermione e Piton mi hanno fatto prendere un infarto con delle scene epiche.
Pur essendo privo d'illustrazioni è un libro che evoca in testa immagini ben precise, rese con poche ma fondamentali informazioni.
L'ho gradito molto perché resta carico della nostalgia potteriana, di legami pieni di pathos tra i personaggi e di frasi che lasciano il segno nel profondo del lettore.
Gli stessi viaggi nel tempo di cui è farcito, non navigano solo negli anni; frugano nell'emotività di ciascuno, portano in luce ogni essere umano con tutte le sue caratteristiche positive e negative.
Soprattutto, Harry Potter insegna ancora una volta, che il coraggio spesso significa fare la cosa giusta, anche se fa un male cane.

Harry, non c'è mai una risposta perfetta in questo confuso mondo emotivo. La perfezione è fuori della portata dell'umanità, fuori della portata della magia. In ogni luccicante momento di felicità è nascosta questa goccia di veleno: la consapevolezza che il dolore tornerà. Sii sincero con le persone che ami, mostra il tuo dolore. Soffrire è altrettanto umano che respirare. 

mercoledì 16 novembre 2016

Due corpi, una sola mente, di Cosimo Mirigliano

Oggi vi segnalo un libro molto delicato e forte. Una storia in cui le persone si segnano a vicenda, lasciandosi ferite.

Sinossi

Giacomo, giovane architetto precario, ha lasciato la casa dei suoi genitori nel sud Italia 10 anni prima per trasferirsi a Roma. Dietro quella partenza si nasconde un segreto. Giacomo infatti ha scelto di andarsene per sfuggire ad un dolore profondo, che lo porta ad entrare in perenne conflitto con se stesso e con chi lo ama. In una Roma di caos e vitalità, incontri casuali e profonda solitudine, Giacomo affronta un percorso difficile verso la sua rinascita, accompagnato da tre personaggi che gli fanno da contrappunto. Luca, l’amico dello sballo, rappresenta la sua anima più distruttiva. Arturo,  da personaggio dai tratti ambigui che vive nell’ombra di Giacomo, diventerà a poco a poco una figura cruciale per lo snodo della storia. E infine l’unica donna del gruppo: Gaya. Solare e allegra,  rappresenta la parte sana di Giacomo, che malgrado lo ami profondamente sarà costretta a lasciarlo per non farsi distruggere.

Il romanzo ha inizio proprio con la partenza di Gaya, e in un gioco di flashback racconta il difficile percorso di Giacomo per ricomporre il puzzle della sua esistenza, e creare un nuovo possibile futuro.



Parte prima - L’andata

Dopo una notte di birra e sigarette Giacomo si sveglia da solo nel letto che per sette anni ha diviso con Gaya. Oggi sarebbe stato il loro anniversario, e pensare che c’è chi dice che non vale la regola del settimo anno. Dall’ultima litigata sono trascorsi dodici giorni. E appena dodici ore da quando ha deciso di mettere fine a una situazione che da troppo tempo oramai non funzionava più.

Malgrado Gaya non ci sia, però, la stanza o, come la chiama lui, il bunker, è impregnata del suo odore. Si gira verso l’interno del letto e il cuscino rosa, pomposo e morbido come le sue tette, è ancora lì.

Ho deciso io di finirla e allora perché non capisco cosa sia successo davvero?

Squilla il cellulare. Lo afferra a tastoni, risponde. Sono gli amici dello sballo. Sì sì, ok. Dopo cena appuntamento dall’egocentrica del gruppo. Sicuro che all inclusive, ci rimedia anche una notte di sesso con la padrona di casa.

Chiusa la conversazione lancia tutto per aria; cuscini, lenzuola, piumone e va verso il bagno per farsi una doccia e togliersi di dosso l’ultima traccia di una notte senza senso. Con shampoo e bagnoschiuma in mano entra in piedi nella vasca e rimane lì, nudo e fermo, a guardarsi intorno. Ovunque ci sono cose di Gaya, le sue boccette, i suoi profumi, fili di capelli incastrati nello scarico, un pacco di assorbenti aperto e lasciato in bellavista. E soprattutto la cosa che gli ha sempre dato sui nervi: la piastra attaccata alla presa che penzola per metà nel lavandino. Un modo subdolo di farmi fuori, ci scommetto. Con uno slancio esce dalla vasca, afferra tutto quello che c’è e lo scaraventa in un sacchetto del supermercato.

A questo punto, vuoi per lo sfogo, vuoi per la sigaretta appena fumata, sente l’esigenza di sedersi sulla tazza e lasciarsi andare. Di corsa finisce di defecare, di pulirsi, di lavarsi e rientra in camera dimentico del caos che lo attende. Oggi, primo maggio duemila tredici ore dieci del mattino, alla radio nazionale lo speaker passa in rassegna i cantanti che si esibiranno al concertone in Piazza San Giovanni. Come di consueto, prima gli artisti meno “ artisti”, poi tutti gli altri, fino a concludere la serata col grande ospite internazionale. Si adopera a fare dello zapping radiofonico e lascia sintonizzato su una frequenza che trasmette solo musica rock.

Alle tre e dieci del pomeriggio i pacchi di Gaya sono sistemati, il concerto è iniziato da qualche minuto e il pranzo è stato gustato con il godimento con cui si gusta una preda rubata dalla trappola di un felino. Prende lo scooter e pensa che gli piacerebbe fare un giro al mare prima di andare verso Trastevere. Per cui casco in testa, documenti nel giubbotto e chiavi in mano, si accomoda sulla sella nera e morbida del suo vecchio ciclomotore.

Oggi la città è in subbuglio, metropolitana e mezzi di superficie vanno a rilento e il caldo amplifica i disagi. Ma a Giacomo non importa, vuole arrivare il prima possibile e mentre sfreccia tra le vie del centro, gli scorrono davanti immagini lampo del suo passato e la strada che l’ha condotto a lasciare Gaya. Ma dai, in fondo ci amiamo, tutto passerà, è ancora possibile chiamarla e sistemare tutto. O forse no. Questa volta non funziona così. Questa volta vuole andare fino in fondo alla sua scelta. Senza quasi accorgersene si trova già sulla Via del Mare.

Come ogni anno da quando vive a Roma, il primo maggio lui deve andare ad Ostia. Oggi viene aperta ufficialmente la stagione turistica e lidi, spiagge private e pubbliche, discoteche e un milione di abusivi riprendono a lavorare a pieno ritmo in un mondo dove nemmeno chi ha conseguito tre lauree, dottorato presso la Regina o specializzazione alle Nazioni Unite ci riesce. Loro, gli innominati, sono pronti, ad ogni monetina non data, a lasciare l’autografo sulla fiancata della tua auto. Ma Giacomo, invece, si beffa di tutti e al mare ci va sulle due ruote. Accaldato e con la testa quasi infuocata per via del casco, arriva sulla strada dei cancelli, ma decide di proseguire in cerca di un luogo più isolato dove trovare un po’ di tranquillità.

Parcheggia a ridosso della rete e si infila su un sentiero tracciato dai passi sulla sabbia. Poco più in là c’è un chiosco semi deserto e lui ha voglia di birra e patatine. Si avvicina al bancone e siede su uno sgabello, chiedendosi se ci sia qualcuno. Da una tenda sbuca una ragazza mora, alta come la Tour Eiffel, magra come un compasso e con due tette che fanno il giro del mondo in ottanta secondi, insomma una figa da paura. Come al solito lui non può trattenersi dal fare il piacione e la tipa abbocca al suo seducente sorriso come un’anguilla all’amo di un pescatore. Battute su battute, si aprono il tanto che basta. Lei dice che nonostante la crisi ha voluto buttarsi in questo piccolo progetto col fratello prendendo in gestione il chiosco e lui allora le racconta che crisi a parte, ha voluto chiudere una storia importante perché non si sentiva preso in modo totalizzante. 
L’ora avanza e il caldo inizia a scemare, ma l’alcol in corpo invece no. Appena inizia ad arrivare gente Giacomo preferisce andarsene e lasciare la preda agli altri. Saluta la ragazza e si incammina al di là di una piccola duna. Recupera quello straccio di telo da mare che ha riposto nello zaino prima di uscire da casa e si sdraia sulla sabbia con una sigaretta tra le dita e una birra da sorseggiare lenta, mentre il pomeriggio precipita verso il tramonto precoce della primavera. In lontananza, un signore porta a spasso il suo cane, una ragazza cinese si propone per un massaggio alla schiena, ed una coppia entra in acqua malgrado il caldo non sia ancora così intenso da poter fare il bagno. Saranno dell’est - pensa - ma invece d’un tratto una frase in romanesco si leva in aria ululando come una sirena. 
A Giacomo è sempre piaciuto questo accento, lo trova robusto e “ testosteronico”. Ricorda ancora quando, a diciannove anni, arrivato fresco dal paesello, sentì il suo primo “ma li morté…” Che poi, sul momento, diciamolo, gli sembrò quasi un’altra lingua. Ma solo all’inizio. Bastarono pochi mesi perché anche lui, come la schiera di fuori sede che affollavano l’Università, assorbisse quel modo di parlare. Solo che a differenza degli altri, Giacomo aveva sempre mantenuto una certa ritrosìa. A parlare romano venendo da fuori gli pareva di scimmiottare i romani veri, di essere un pappagallo che si fa bello a imitare la lingua dell’uomo. Lui invece rispettava troppo quella città, la sua storia e le sue parole che morivano a metà.

«Ma non dovevi venì alle sei?»

Così l’aveva accolto la sua prima padrona di casa.

Cinque del pomeriggio, ultimo piano di un palazzo di Via Lorenzo il Magnifico. Niente ascensore.

Alla porta si era presentata una donna sui cinquanta passati malamente, seguita da uno scodinzolante barboncino color miele, anch’esso piuttosto attempato. Per qualche strana ragione gli  ricordava la figura di Mamy del film di Celentano il  Bisbetico Domato, ma a differenza della governante questa era bianca come un cadavere ed aveva, oltre alla foresta amazzonica sulle braccia, anche dei fusti di pino sulle gambe. Sfoggiando un garbo squisitamente mascolino e un alito che avrebbe ammazzato anche una pantegana del Tevere, lo aveva fatto accomodare in salotto.

Mentre parlava delle modalità di pagamento, del contratto che non avrebbe mai stipulato, della non possibilità di avere un qualsiasi arredo all’infuori di quello che già c’era, Giacomo aveva fissato incredulo i bigodini stretti sulla testa, il rossetto rosso spalmato a caso sulle labbra, i calzini da uomo lasciati sporchi in terra, le poltrone unte che regnavano come troni. Stava per alzarsi e sparire senza neanche salutarla quando vide qualcosa che lo trattenne: un terrazzo gigantesco che dava largo spazio alla vista: da un lato tutta la zona della Tiburtina fino alle pendici di Tivoli, dall’altro il centro di Roma con Villa Borghese e la sua mongolfiera turistica. Prese in affitto l’appartamento, strinse la mano alla strega e sulla porta, al momento di congedarsi, venne ricompensato da un improvviso entusiasmo erotico del barboncino color miele che gli si avvinghiò alla caviglia lasciandogli addosso ogni possibile schifezza che avesse attaccata al pelo.

La coppia sulla spiaggia continua a giocare con spruzzi e risate regalate al vento tiepido. Giacomo li osserva mentre scola la sua birra e fuma una sigaretta dietro l’altra. La testa è pesante ma la mente leggera e fresca. Il vocìo scomposto dei bagnanti sulla spiaggia e nei parcheggi si sta man mano trasformando in cheto suono che lascia solo la scia dell’ultima sillaba di ogni parola. Una strana eco quasi sottovuoto gli si insinua nell’udito e piano piano Giacomo si lascia andare ad un rilassamento quasi uterino. Un’ora dopo, è il trillo di un cellulare troppo vicino a svegliarlo di colpo, strappandolo al suo torpore di sogni e alcol. Seduto nella spiaggia ormai deserta assapora gli ultimi secondi di silenzio prima di riprendere in mano la sua vita ed affrontare un’altra serata inutile.

Sulla strada verso Roma ammira i colori che si creano di notte, le larghe strade striate dal giallo sfocato dei lampioni, i semafori lampeggianti, le insegne luminose che indicano la direzione anche a chi non ricorda il nome delle vie, i dialetti e le voci che echeggiano lungo i marciapiedi. La vita dovrebbe essere sempre così, pensa. Un lungo scorrere di vita. 

Per andare verso Trastevere Giacomo fa la solita strada. Sul Lungotevere decide di fare una sosta per un’ultima sigaretta prima di affrontare gli amici dello sballo. Parcheggia vicino Ponte Milvio e fa due passi. Ma vorrebbe che diventassero quattro, otto, sedici, trentadue; insomma passi infiniti che potrebbero evitargli il peso di questa ennesima inutile serata. Si accende una sigaretta e appoggia i gomiti sul grosso cordolo in cemento, ammirando lo skyline romano fatto di luci e alberi. Intorno a lui, complice l’uscita al cinema di un film popolare, il ponte si è riempito di lucchetti di ogni grandezza e colore, con dediche folcloristiche nelle lingue più diverse. E quei lucchetti adesso gli ricordano la storia con Gaya.

Anche quella, come il ponte, si è riempita a poco a poco di lucchetti, di  fantasmi e di tante, tante regole che non è mai riuscito veramente ad accettare.

Giacomo mi hai scocciato, non trovare scuse, tu non mi ami, punto e basta. Ami solo quella tua bella faccia da stronzo e nessun altro, ma prima o poi ti stancherai anche di guardarti allo specchio, solo che io non ci sarò più qui a raccogliere i cocci. Quando si ama, si ama in tutto quello che l’altro rappresenta.

La sigaretta di Giacomo questa sera sembra non volersi spegnere mai, o forse è lui che non vuole lasciare quel luogo.

Si può amare un essere umano alla follia e non riuscire a dimostrarglielo in nessun modo, facendogli del male pur senza volerlo?

Questa domanda non smette di tormentarlo, insieme ad un’altra.

Perché è stato così urgente separarsi da Gaya?

Non era più normale sentirsi col cappio al collo, ma con una storia che riusciva almeno in parte a scandire la sua vita, a darle un senso? Non è quello che fanno tutti? E invece adesso, libero com’è, si sente più che mai un animale selvaggio che sbatte contro le pareti di una gabbia inaspettata.

« Scusi, potrebbe indicarci la strada per arrivare a piedi a San Pietro?»

Una coppia è ferma dietro le sue spalle, e aspetta una risposta. Giacomo un po’ di getto, un po’ per abitudine, appena si riprende dalla sorpresa risponde che da ogni punto del Lungotevere - se ci si fa caso - si vede il cupolone, per cui con un po’ di pazienza e delle scarpe meno alte ci si può arrivare senza disturbare nessuno; dopodiché li saluta e si dirige verso lo scooter. Mentre ripercorre i suoi due, quattro, otto, sedici, trentadue passi lo prende una fitta all’addome, per cui si siede qualche minuto sugli scalini che danno sulla strada.

sabato 12 novembre 2016

Ermal Meta. Un Dejavu prorompente come un fulmine


Voce ipnotica, sguardo da maledetto e canzoni fatte di ferite ricevute e inflitte. Ecco il vistoso biglietto da visita di Ermal Meta, esibitosi al Dejavu il 10 Novembre. 
Profilo basso all'inizio: parla poco, fuma la sigaretta, se ne torna al suo tavolo con quel maglione rosso che stona con il carattere apparentemente introverso. Un introverso che si aggira nel locale confondendosi con gli altri, fin quando i fan non cominciano a chiedere foto ed autografi, a cui si presta con educazione e tranquillità. Trae quasi in inganno questa pacatezza apparente, quando poi sul palco ci si trova davanti un carismatico trascinatore.
Rompe il ghiaccio con "Umano", ma non è necessario creare l'atmosfera: il pubblico è già caldo e partecipe fin da subito.
I Lupi di Ermal lo conoscono dai tempi dei "La fame di Camilla" -gruppo fondato agli esordi- di cui ha proposto i brani più famosi.
Il concerto si è svolto in un'atmosfera raccolta, calorosa, in cui non ci si è fermati solo ai brani solisti e della band di provenienza. Ermal ci ha offerto delle cover dei Radiohead da spezzare il cuore -tra cui "All I need", che purtroppo non avevo mai ascoltato e adesso il cervello chiede di sentire a ripetizione-, una toccante -e in un certo senso profetica- Hallelujah capace di mettere il magone.
Stupefacente e versatile, è giunto a proporre anche canzoni particolari come "L'uomo di Plastica" -del progetto Rezophonic- . Anche lì ha confermato il suo talento e lasciato tutti a bocca aperta con una tecnica perfetta e una voce fuori dal comune.
Qui non si tratta solo di tecnicismo; quando le note escono da lui, s'impastano delle emozioni che ha dentro e travolgono lo spettatore con tutta la loro carica emotiva. 
Non ero affatto sorpresa della presenza scenica capace di mettere a proprio agio con poche battute mirate, dal falsetto potente e delicato nel contempo che ti fa dimenticare chi sei. Avevo già visto ciò di cui era capace parecchio tempo prima, quando la mia migliore amica mi portò a sentire i "La fame di Camilla" e restai così sgomenta e ipnotizzata da questo cantante, da pensare che sicuramente avrebbe fatto strada.
Infatti eccomi qui, anni ed anni dopo, a parlare ancora di lui con lo stesso entusiasmo viscerale. Ermal porta con sé una fiamma che nel tempo non si estingue e conquista sempre più cuori.

mercoledì 9 novembre 2016

L'amore è come una partita a tennis


La mia amica Martina, nonché il mio -credo- angelo custode visto il caso umano che sono, se n'è andata il 5 Agosto 2015.
Vi ho già parlato di lei (se non ricordate, leggete QUI), chi mi segue un minimo la conosce già.
Una delle ultime cose che mi scrisse in chat e che mi sono ritrovata a rileggere più volte, è che l'amicizia vera è come una partita a tennis. Botta e risposta. Un rimbalzo ciascuno e si va a finire lontano. 
Un rimbalzo a testa e si costruisce insieme, senza farsi del male.

È così che credo debba essere anche l'amore.
Sono anni che m'interrogo sul significato di tale parola, anche perché non è facile definire oggettivamente un termine così soggettivo.
Nei miei pochi libri ho sempre presentato un amore strano, freddo, capace di succhiare la vita senza restituire nulla. Qualcosa di così totalizzante, che in un certo senso ti fa smettere di esistere. Ma non è così che funziona. Provo il bisogno di specificarlo, dal momento che il mio post più seguito è quello sull'anoressia; tra i miei lettori è quasi una prassi la tendenza a farsi male in ogni senso. Il mio consiglio, col senno di poi, dopo forse troppi errori e pianti è: salvatevi.
Gli amori malati funzionano solo nei film. È poetico restare senza fiato, senza cuore, nudi e fragili a soffrire... ma si finisce semplicemente per perdere se stessi. Si finisce cancellati.
I vampiri che ti succhiano l'anima e il corpo, non esistono e negli amori totalizzanti non stai veramente amando. Se non puoi amare senza condurre una vita da normalissimo essere umano, l'altro non ti sta amando davvero: sei solo una pedina di cui lui/lei dispone a suo piacimento. E non è nemmeno il male peggiore... il peggio è che degli oggetti ci si stufa, si cerca continuamente il modello nuovo, per quanto possa essere di valore l'attuale.
Chi vi tratta come un oggetto non ha la più pallida idea di cosa significhi amare, e seguita a cambiare modello fino allo sfinimento, senza trovare mai una strada nella vita. Amare una persona è amarla per intero, senza limitazioni. Amarla per come ride, per come piange, per come si addormenta ad orari impensabili. Amarla perché non sempre fa o dice la cosa giusta, ma non sempre fa o dice quella sbagliata. Amarla perché si dimentica ciò che le racconti, per la sua ingenuità, perché non sempre saprà sorridere ma nei momenti bui non avrà paura del tuo aiuto e tu non avrai paura di chiederle aiuto.  
Amarla perché quello che è, con tutto ciò che comporta, vi ha scavato un solco nell'anima. Un solco irripetibile.
Amate non per rendere perfetto, ma per perdervi in quella fantastica imperfezione.
Fermatevi solo quando qualcuno vi amerà così. Perché quel qualcuno ci sarà, quando cadrete dal piedistallo e smetterete di essere perfetti.
Quando vi sentirete un oggetto rotto, rimpiazzabile con un altro da utilizzare allo stesso modo, dovrete chiedervi se questo amore vi fa sentire speciali, se è davvero equo nelle risposte, come una partita di tennis.
Amare davvero implica prendersi cura dell'altro, ma implica che ci si può lasciar cadere nei momenti di fragilità e svegliarsi vivi, perché nessuno si è approfittato della vostra debolezza.
E vi auguro di provarlo sempre, l'amore che non uccide.





martedì 1 novembre 2016

I bambini devono sognare i dolci, non la terra che se li vuole mangiare





Se questo post fosse una puntata de "I Simpson" sarebbe lo special di Halloween -che viene trasmesso ad Aprile senza ritegno-. Suppongo...cioè, credo. Beh, insomma.
Domenica mattina mi sono svegliata per una leggera insonnia, poi la casa ha cominciato a ballare il tango.
7,1, credevo...poi mi sono resa conto di non aver capito niente io, perché i tg dicevano diversamente. 6,5? Voci narrano che tal valore sia stato mandato indietro insieme all'ora, ma onestamente lascerei ad Adam Kadmon il compito di risolvere tal quesito. 

Norcia
Ormai dalle mie parti, se vuoi un vestito di Halloween davvero efficace, ti devi vestire da montagna.
Mi sono resa conto che esistono persone adulte che non hanno mai assistito dal vivo a un terremoto.
Chi malauguratamente in questi giorni si trova dalle mie parti per motivi lavorativi, venendo dal nord o sud Italia, vaga con il panico negli occhi e tanta voglia di tornarsene subito a casa. Risolvere alla svelta ciò che deve e tanti cari saluti alla terra che inghiotte la gente.
E la nostra casa?
Purtroppo anche noi del centro abbiamo sempre voglia di tornare a casa, anche se si è data al tip tap. Non c'è niente di più orribile di avere una tana che uccide invece di proteggere. Sarete tutti stupiti, ma la gente vuole ricominciare proprio dov'è finita, nessuno smania per ricostruire lontano. Ciascuno è attaccato ai propri luoghi, anche se rischiano di farsi trappola mortale. C'è tanta sofferenza, nel vedere la gente che non dorme e va a cercare un sonno "sereno" dentro la propria macchina.
Prima della casa che ti cade in testa, ci sono volte in cui resta intatta, ma tante persone affrontano ugualmente la notte fredda in un auto, che non offre certo una comoda dormita.
Poi magari passa qualche mese di pace, t'illudi di essere al sicuro e che ciò che più temevi era solo un brutto sogno. T'illudi di questo, quando all'improvviso i tuoi sforzi non sono serviti a niente. Perché senza avvertimenti di sorta, nel cuore della notte, oppure all'alba, o in qualsiasi altro momento apparentemente innocuo della giornata, la casa che cade stavolta è proprio la tua. Cade e fidatevi, c'è troppo panico per recitare alla Oxford le prove di evacuazione. 
Amatrice

I momenti che ti salvano la vita in genere li bruci a capire se farai in tempo a salvare anche il cane, se riuscirai a strappar via magari la borsa, o un album di foto.
Durante una scossa ho cercato di prendere i miei due cani, ma non riuscivo a prelevarli di peso entrambi. Al che mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se durante un terremoto letale, mi fossi trovata sola con loro.
In quella manciata di minuti non ce la fai. Non partorisci mai il pensiero che ti salva la vita, perché ciascuno è attaccato a qualcosa o qualcuno che lo porterà a perdere quel minuto fondamentale.
La paura è diventata la compagna delle nostre giornate, ma sapete una cosa?
Non ha importanza.
Non ha importanza perché oggi, come ad ogni Halloween, i bambini vengono a chiedere i dolci e s'illuminano in viso quando gli doni qualcosa. Sono bellissimi, hanno addosso delle maschere fai da te indecifrabili, tanto per. Porca miseria se sono meravigliosi.
Mi hanno fatto ricordare una frase che mia madre mi disse tanto tempo fa, quando anche da piccola non la finivo mai di rimuginare su pensieri troppo grandi per la mia età. Lei disse solo: "I bambini devono vivere spensierati". Al tempo mi risolse la vita; a volte la chiave sta nella semplicità.
Anche oggi mi risolve la vita, nonostante i miei terremoti interiori ed esteriori, pensare che la felicità dei bimbi non la porta via nemmeno la terra che uccide.
Che festeggino pure Halloween, mi basta vederli ridere per qualcosa. Così la bimba che è in me riderà con loro e si dirà che vale comunque la pena andare avanti.
La speranza non se la mangia la terra.
I sorrisi non verranno inghiottiti dal buio della paura.

domenica 16 ottobre 2016

Il Mare della Vita

Sapete, non tutti affrontano le giornate di sole come se il sole ci fosse davvero; non tutti riescono a vedere la magia della loro esistenza, perché il dolore spezza e ostruisce ogni cosa.
Ci sono mali che ti predispongono a una sofferenza perenne, la peggiore: l'assenza di luce.
Momenti terribili in cui ti ritrovi in una stanza al buio senza accorgerti di come ci sei arrivato. Momenti in cui ti ritrovi a dubitare di chiunque, anche degli affetti veri. In nome di quel dolore, distruggi anche ciò che potrebbe salvarti. A volte l'unica cosa che puoi fare è abbandonarti e lasciare che qualcuno ti aiuti, ma è proprio lì che il Buio ti costringe alla chiusura, perché alla fine non sempre si ha quel coraggio; è più semplice tacere e lasciarsi accoltellare.
E resti solo. Non ti fai aiutare da nessuno, perché tanto nessuno può capire o placare quel mostro che ti divora le viscere senza chiedere scusa. Quel mostro che ha sempre fame e ti destabilizza, ti toglie le forze.


"L’intento di raccontare questa storia nasce dall’esigenza di porre un focus su un problema sempre attuale ma poco affrontato: la depressione.
Questo male colpisce moltissimi giovani e lo scopo di quest’opera è proprio quello di trasmettere speranza e determinazione per credere ancora in un futuro, che al giorno d’oggi sembra ci sia stato strappato via. Un altro proposito è quello di sensibilizzare il pubblico verso una malattia così diffusa eppure così sottovalutata, tanto che molti perdono la vita proprio per mancanza di supporti validi per guarire.


Sinossi: Kevin perde i colori da quando la sua donna lo ha lasciato, non vede più la vita.  
Fiamma, nella testa del protagonista, non sa più chi è; ingaggia una lotta disperata contro i mostri del Buio affinché il suo mondo, il "Giardino" non si prosciughi.
Non sarà solo nella lotta: Luce sarà al suo fianco."

Per saperne di più, perché non mettete un bel like alla pagina dell'autore?  
Leonardo Carboni - Weird Stories








Leonardo Carboni



lunedì 10 ottobre 2016

La felicità.


Non c'è cosa più facile che scrivere della tristezza. È un'emozione così totalizzante, annientante, così violenta che non la puoi reprimere e intasi la vita altrui, straripi nei pianti contagiosi. Straripi nel tirare addosso agli altri il tuo buco nero, perché vuoi solo uscirne, vuoi liberarti dal liquame, dallo schifo.
Tutti parlano della tristezza, ma nessuno parla mai della felicità.
Nessuno riesce mai a parlare, dell'anima che trema forte quando vedi qualcuno. Nessuno riesce mai a parlare di quella sensazione, dopo aver vagabondato tanto a lungo, sotto la pioggia, sotto un gelo da far battere continuamente i denti, di essere finalmente a casa.
Nessuno esprime mai cosa vuol dire sentire tanto caldo da crollare a dormire, perché finalmente si è al sicuro e niente può più distruggerti. Quando non hai più battaglie interminabili da combattere e puoi riposare senza il terrore di morire di nuovo, grondando sangue. Quando le ferite non pulsano più e sei quasi sorpreso, perché ormai credevi di non avere più speranza, che soffrire fosse il tuo disgraziato destino, la normalità.
Ti viene solo da piangere. 
Quando dopo un funebre silenzio, ti alzi e senti in te la musica fiorire, puoi solo piangere di gioia. 
E non ci sarà vita di merda capace di cancellarti quel sorriso lì. Non ci saranno turni massacranti di lavoro, rimproveri, sgarri capaci di portartelo via.
Non ci sarà niente e nessuno in grado di cancellare la gioia vera, quando la provi. 
Vuoi solo vivere ancora, vuoi solo non fermarti mai, anche quando cadi a pezzi per la stanchezza. 
La gioia vera, daresti tutto te stesso per provarla ancora, in qualunque condizione.
Quel sorriso lì è fuoco inestinguibile e sa solo nascondersi un po', per esplodere di nuovo. 
Volevo solo lasciarlo scritto. 
Segnarlo dove potrò rileggerlo fino alla morte.
Che cascasse il mondo, sono felice. 
Sono felice. 
Felice.
Felice.
Volevo scriverlo, che non conta che la vita vada come ti aspettavi, ma che vada come volevi. 
Non dimenticatelo mai. 
Dovete essere voi stessi. Dovete essere felici.
Non dovete essere o fare quello che si aspetterebbero da voi, ma quello che vi fa ridere dentro di cuore. 

-E' stata chiamata "giallo".
Così ho seguito la mia strada,
qualcosa di importante da fare.
Ed era tutto giallo-




venerdì 7 ottobre 2016

Recensione: Lo spacciatore di carne, Giuliano Sangiorgi

Trama (per motivi di tempo inesistente, ho dovuto prenderla da internet):
Non c’è legame più forte del sangue. E il sangue, la carne, nella vita di Edoardo sono molto più che una metafora: sono la materia di cui è fatto il suo passato e quella a cui deve tornare.
Aveva cinque anni, «cinque anni di niente» il giorno in cui ha visto suo padre sgozzare un agnello. Da allora il sangue non ha smesso di scorrere nel mattatoio, «la carne-officina» dove il padre macellaio (un tempo il suo gigante buono, adesso un estraneo) attende con pazienza che prenda la laurea prima di raggiungerlo e mettersi all’opera accanto a lui. Perché quello è il destino che la sorte – una sorte incarnata in famiglia – gli ha assegnato, contro cui Edoardo può al limite provare a ribellarsi nascondendo gli agnellini sotto al suo letto, illudendosi che giocare a proteggerli possa salvarli davvero dal loro futuro segnato, e non semplicemente rimandarlo. Dopotutto rimandare, nascondersi, è quello che fa anche lui: studente fuorisede a Bologna, è lontano da casa da due anni ma ha dato solo un esame, il più facile. Vive in un appartamento di via Zamboni con due ragazzi, in uno spazio a compartimenti stagni, dove l'unico contatto con gli altri è dato dagli odori e dal vuoto lasciato dai coinquilini quando vanno in facoltà. La sua è una vita in stallo, «un presente parcheggiato».
Finché, sul treno per Bologna, incontra Stella. Un faccia bianchissima da bambina, vent’anni sulla pelle e mille negli occhi. Stella è bellissima, misteriosa, bacia e morde con la stessa passione, e Edoardo se ne innamora in un istante. È l’inizio di un rapporto simbiotico, un triangolo travolgente e pericolosissimo che ha come terzo vertice la droga. Per procurarsela (per lui, ma soprattutto per Stella) Edoardo rivende i tagli pregiatissimi di carne che suo padre gli spedisce orgoglioso ogni settimana: la carne in cambio della droga, la droga in cambio di Stella. Ma ciò che inizia nel sangue non può che finire nel sangue.
Quando Edoardo capisce che Stella l’ha abbandonato, quella carne che alimentava il suo legame comincia a trasformarsi in ossessione. In un mondo ormai allucinato dove tutto appare possibile, la carne diventa denaro contante e l’amore diventa incontrollabile follia.


Recensione: La parola d'ordine è anticonvenzionale. Mai letto un libro del genere.
Il mondo sporco e confuso di sangue a cui Edoardo è stato destinato fin dall'inizio è come se lo inghiottisse, come se lo tirasse a sé, facendogli capire che dal sangue non c'è realmente scampo.
Lo stile è intricato e complesso. Giuliano Sangiorgi conferma la sua modalità di scrittura intrisa di dolore e poesia, una poesia faticosa che scaturisce da un vortice di emozioni difficile da descrivere e spiegare.
La chiave di lettura è capire, sporcarsi di quelle parole finché non diventano proprie. Capire quell'incomunicabilità di fondo che rende tutto faticoso, sporco e privo di un effettivo respiro.
Edoardo, il protagonista, in partenza sembra privo di una reale identità, quando invece mostra un'anima piena d'inventiva nonché folle. Cade nella stessa trappola da cui cercava di scappare per una vita e lo fa con tormento crescente. Un tormento che si autoalimenta in un circolo, soprattutto per colpa della sua grande sensibilità.
Stella onestamente l'ho trovata  poco interessante, poco fine e delicata. Piuttosto grossolana come donna nei gesti. Una donna che quasi sarebbe meglio non incontrare mai, che vive urlando la propria esistenza addosso agli altri, priva di una qualsiasi grazia e pudore. Non lascia qualcosa di bello da ricordare; è un personaggio che si regge interamente sull'idealizzazione, sul castello di carte che Edoardo aveva costruito nei suoi confronti.
Anticonvenzionale per anticonvenzionale, invece vi dirò che ho gradito molto più Sonia. La dolce donzella altri non è che una prostituta, conosciuta casualmente durante la relazione con Stella. I due si limitano sempre a salutarsi in maniera medievale, dolce. Un giorno però, quando ciò che riteneva amore è ormai sfumato, torna dalla giovane e le propone un baratto: la carne di suo padre in cambio dell'amore di lei.
Lei accetta di buon grado lo scambio, ma poi c'è un passaggio rapido, poche righe che definiscono alla perfezione questa stupenda meteora, molto più meritevole di attenzione. Poche righe che mi hanno fatto venire la pelle d'oca, rendono superflua ogni spiegazione.

L'amore a gettoni dura poco.da quel giorno Sonia mi ha amato tutte le volte che le ho portato qualcosa di carne. Il frigo si è riempito fino a strabordare. Ne è ancora pieno. Non so se mi ha scopato per compassione o per amore.Poi ho saputo: non mangia carne e non me l'ha mai detto. 


Dopo quest'umana parentesi di amore disperato, ha inizio la vera e propria discesa all'inferno.
Edoardo diviene già un tutt'uno con le droghe grazie all'incontro con Stella; da lì non perde mai l'abitudine e finisce per non ritrovare nemmeno se stesso. L'amicizia con lo spacciatore, Luca, non fa altro che facilitarlo nella fusione tra ciò che è falso e ciò che è reale. Lui stesso gli procura tutto ciò di cui ha bisogno per dipingere la sua nuova esistenza, per aiutarlo a sovvertire il sistema monetario.
Ci si perde come il protagonista. Ci si perde, sporchi di sangue, sporchi di troppi colori -le droghe- a chiedersi cosa sia davvero successo e cosa no. Il finale ci lascia sulla bocca un punto interrogativo importante... un nodo che non si scioglie e resta lì, con il carico di angoscia che si trascina appresso.
È un libro tanto poetico quanto sfacciato e rivoluzionario negli intenti.
Oltre le vicende personali, sulle quali scende la pesante ombra del dubbio, la narrazione lancia sassi: riflessioni che passerebbero inosservate, se solo non puntassero esattamente l'occhio di bue sulla sporcizia del mondo. Un mondo costruito sul denaro, frutto di sangue almeno quanto la carne che egli spaccia. 

E perché un pezzo di carta è arrivato a muovere le cose, tutte, la vita e la morte dell'umanità?
È solo carta, cazzo. La mia è carne. Meglio uccidersi per questa, se proprio si deve, come branchi di animali intorno alla carcassa di un cadavere... e vinca il più forte, vinca il più aggressivo tra di noi umani. Meglio un uomo, nudo di carne e ossa e non uno straccio di carta.
Meglio dipendere dall'uomo e dalla sua carne, anziché dal denaro e i suoi cadaveri. 
Il lieto fine non esiste, il libro si conserva intatto nel suo pessimismo e nella sua disillusione.
Non seguite la storia; seguite le parole e i pensieri che ne fanno da impalcatura di fondo. Saranno loro stessi a condurre il gioco.

lunedì 22 agosto 2016

Hannibal. Psicologia avanzata attraverso la follia più assoluta.


Quanto vi piacciono le cose deviatissime? A me tanto. Cioè ecco non fraintendetemi, non malatissime nel senso che vado in giro a falciare la gente nel tempo libero, ma non disdegno ciò che è strano.
Ok confesso che non è una grande introduzione, dal momento che seguire una serie tv in cui il cannibale cucina le sue vittime neanche fosse Chef Rubio, forse calca un po' la mano sul concetto di "strano".
Ad ogni modo, fossi in voi non me la perderei affatto. 

Vi lascio un po' di trama spicciola, rubata alla nostra amica Wikipedia che crede di saper tutto:

Will Graham è il più talentuoso profiler dell'FBI, le sue grandi doti ed il suo modo unico di pensare gli permettono di entrare nella mente di un killer come nessun altro. Tuttavia, tale abilità e la prolungata empatia iniziano, col passare del tempo, a giocare crudelmente con l'immaginazione dell'uomo, trascinandolo sempre più vicino al baratro, alla sottile linea che divide follia e realtà. Al fine di riportare equilibrio ad una mente spesso travagliata come quella di Will, egli viene affiancato all'illustre psichiatra criminale Hannibal Lecter, ignorando come qualcosa di non meno distorto si celi nel noto dottore, seppur in forma diversa e più malsana. Due menti brillanti, avvezze a studiare quelle altrui ed a modo loro macchiate, iniziano così il proprio gioco.

Presto i due cominciano ad avvicinarsi sempre di più, il loro legame oscuro si trasformerà in qualcosa di più di una semplice amicizia, arrivando a un'attrazione fatale che li porterà sul punto di non ritorno.

E come dare torto alla cara Wiki...
Presto nella storia si serra sempre di più un complicato botta e risposta psicologico, che trascinerà nel vortice non solo i due, ma anche Jack Crowford (capo della sezione scienze comportamentali dell'FBI), Alana Bloom (consulente dell'FBI nonché professoressa di psicologia), la complessa Bedelia Du Maurier (la psichiatra di Hannibal), Habigail Hobbs (una ragazza dalla difficile storia famigliare che legherà con i protagonisti), Frederick Chilton (direttore dell'ospedale psichiatrico criminale di Baltimora) e Freddie Lounds (una giornalista/blogger piuttostio fastidiosa che gestisce il sito TattleCrime).
Chiedo venia per l'elenco del telefono, ma non ho voluto approfondire con spoiler.

Devo spezzare una lancia a favore di un personaggio che in fin dei conti mi è sempre piaciuto: la cara piccola Freddie. Non è una giornalista; è una mosca demoniaca, riesce ad essere ovunque e infastidire l'intero sciame di deviati con il suo sito, che sembra quasi sia l'unico mai letto in zona. La morte la sfiora parecchie volte eppure ha i suoi metodi per fare entra ed esci dai guai. Fantastica proprio perché non fa altro che farle girare un po' a tutti... il che è già abbastanza pericoloso anche senza avere a che fare con psicopatici.
Alana anche mi ha rapita, ma molto più con l'entusiasmo iniziale. Come mi è stato anche annunciato mentre seguivo la serie, si perde per strada, in effetti si comincia a non comprendere il senso di questa donna piazzata lì. Se ci fermiamo verso la prima e seconda serie, possiamo ancora affermare che abbia uno scopo.
Punto di forza sono senz'altro le ricette -bambini non rifatele a casa con la gamba della mamma, non si fa- che Hannibal serve con spudorata professionalità ai suoi ospiti. Viene più fame che il voltastomaco, ve l'assicuro. Però sì, sono parti della gente che uccide, perché quello è il suo modo per onorare la morte della suddetta. Dovrebbe scrivere un libro di ricette, guadagnerebbe di più di Benedetta Parodi perché son manicaretti fatti col cuore... non chiedete di chi, che è meglio.

Appetito a parte, ciò che salta all'occhio sono i dialoghi. Ora perché nessun essere sano di mente avrebbe il coraggio di puntarsi a ogni frase degna di nota per segnarsela, ma vi giuro, sono tantissime. C'è un continuo scavare la natura umana, un continuo scoprire meccanismi della psiche altrui. L'empatia per Will Graham sarà spesso un'arma che gli si ritorcerà contro, ma che nel contempo lo aiuterà a inquadrare le cose anche in maniera più lucida degli altri.
Non si tratta solo di due psicopatici che si tengono testa e gli altri che ci rimettono tutt'intorno; quelle teste hanno un legame particolare, come se funzionassero costantemente allo stesso modo per poi deviare in direzioni differenti.
Sapete una cosa? Ho assistito al finale e non sono mai riuscita a capire chi preferissi tra il buono e il cattivo. 
La recitazione di entrambi mette i brividi: Will sembra sentire le più microscopiche vibrazioni di ogni anima, che si ripercuotono su di lui in maniera terribile. Colpisce soprattutto perché finisce costantemente destabilizzato; Hannibal conquista per la sua brillante impassibilità. La profondità del suo animo è esternata solo mediante gesti che possono sembrare comprensibili solo ai suoi occhi.
Avete presente Breaking Bad? In un certo senso il legame che s'instaura è simile a quello Walt-Jesse solo che Walt non cerca di ammazzare Jesse di continuo e viceversa. 
Lascia pensare. Parecchio. L'odio che s'instaura man mano tra Will e Hannibal è un sentimento malato, complesso. In quanto tale è difficile per entrambi definirlo, perché ne hanno una visione opposta.

Come finisce? Come merita. 
Con la stessa complessità che manda avanti ogni singola puntata. Terminare la serie così, l'ho trovato decisamente realistico e onesto. 
Ci porta ad inquadrare gli avvenimenti con un'ottica più grande, abbracciare uno stile di pensiero che non appartiene di certo alla gente comune...ma in qualche modo, proprio per questo, rende tutto più vivo, autentico, viscerale.
Come se tutti i legami veri contenessero qualcosa di profondamente malato e non se ne potesse fare a meno.
E forse in fin dei conti è così: le relazioni sono reali quando si perde una buona parte di se stessi per gli altri. A volte anche fino ad impazzire.

Nessuno conosce completamente un altro essere umano, a meno che non lo si ami.
Tramite questo amore vediamo il potenziale nel nostro amato; attraverso questo amore, permettiamo ai nostri amati di vedere il loro potenziale.
Esprimendo questo amore, il potenziale della persona amata viene fuori



martedì 16 agosto 2016

Recensione: Follemente Felice, Jenny Lawson


Ristrettezze di tempo mi chiedono di essere breve anche laddove vorrei dilungarmi nel recensire, perciò farò del mio meglio, che è quello che in linea di massima fanno tutti. Non ho visto nessuno d'altronde che s'impegni a fare del proprio peggio.
Ho deciso che questo libro non avrà un voto, perché innanzitutto i voti non mi sono mai piaciuti, oggi mi girano parecchio (ciò rafforza il fastidio verso i voti) e questo libro è davvero soggettivo. Dipende dal rumore che fa in ognuno di voi, dall'eco che torna indietro. 
Confesso che da questa lettura mi aspettavo di piangere molto di più.



Nel libro Jenny Lawson si confessa, aprendoci le porte verso il suo mondo più intimo. Un mondo fatto di fantasmi, problemi di salute molto gravi e depressione.
Eppure è come se questi fantasmi li pitturasse con una vernice fosforescente, come se a un certo punto ci suscitasse grosse risate.
Si scorge un'anima così forte che alla fine è il buio della depressione ad averne paura.

Ok, da dove comincio?
Sono già stranita, perché quando recensisco un libro ho il brutto vizio di andare a leggere cosa ne hanno scritto altri recensori... poi incappo in quelle recensioni scritte palesemente col didietro e mi viene voglia di lanciare la tastiera dalla finestra, poi giungerei a casa del suddetto e gli chiederei se almeno ha letto tutte le pagine o una sì e una no.
Eh già... per fare le recensioni il libro va letto intero, senza barare. Lo specifico perché non si sa mai.
Ma già non leggono bene il libro, figurati le recensioni altrui... quindi non sapranno mai che la loro è stata scritta con il didietro. Fa niente, la vita va avanti.
Non che io sia un fenomeno, ma almeno le parti che non capisco le rivedo più volte invece di dare dell'idiota allo scrittore perché non ci ho capito nulla. Così, per dire.
Fidatevi, non è questione di opinione diversa, ma proprio di non saper cogliere l'essenza, il senso di quanto è stato letto, che è ben diverso. Per favore leggete gli Harmony e lasciate stare le cose che non capite.
Comunque, riprendo: mi aspettavo di piangere davvero tanto, perché l'argomento è triste, perché una depressa dovrebbe essere triste e dovrebbe rendere tutti gli altri tristi. Invece vi spiazzerà la gioia che scaturisce come un fiume in piena dalle sue parole.
Lei è indubbiamente strana, fa cose strane come indossare pelli di animali, vestire i gatti nonché costringerli a fare un rodeo ed esasperare il povero marito Victor, trascinandolo in discussioni senza senso.
Non potete nemmeno immaginare quanta bellezza scaturisca da una persona del genere. Si offre ai propri lettori senza filtri e in maniera onesta, è divertente, vivace. Ti viene voglia di essere come lei nonostante tutti i problemi che la limitano.
Purtroppo la depressione per molti è una parola tabù. Fa paura e terrorizza soprattutto chi vive in maniera normale, quando viene a sapere che un famigliare o un amico è depresso. Già, è sempre una cosa che arriva a chi è lontano... invece quando giunge molto vicino alcuni fanno finta di niente, altri si agitano, altri spronano la persona che sta male nel modo sbagliato, buttandola ancora più nell'abisso. La depressione fa paura, crea il caos. E lo crea tanto nella testa di chi la subisce, quanto in quella di chi la vede da fuori e non sa che pesci prendere, come aiutare, come contrastare la bestia nera.
Jenny è speciale, perché questo delirio lo fa sembrare normale. Lei vive con la piena accettazione del suo dolore e così anche la sua famiglia. Il marito e la figlia le fanno forza e lei ha l'onestà di non chiudersi al mondo e di esporsi in tutte le sue ferite.
Queste ferite però sono frammenti. Schegge di vetro che sfregiano ogni tanto la lettura mentre si saltella da un aneddoto divertente all'altro. Fidatevi: ci sarà più da morire dal ridere che da piangere.
Credo che sia una cretinata, a prescindere da chi sei e a che cosa sei allergica. Della zuppa che ti viene data una cucchiaiata alla volta da camerieri in smoking è l'esemplificazione dell'imbecillità dei superprivilegiati. Sono sicura che sia stata un'idea di alcuni ristoratori drogati che pensavano che sarebbe stato divertente vedere se la gente se la sarebbe bevuta. Sospetto che il prossimo passo saranno i cracker preiunumiditi dalla saliva del cameriere e passati dalla sua bocca alla tua come se fossi un uccellino. Anzi, quando questo libro sarà pubblicato, i cracker sputati saranno la prossima grande novità, e voglio che si sappia che sono stata io a inventarla.


L'andamento è pressappoco il seguente. Il mondo insolito di Jenny vi circonderà fino a farvi accappottare dalle risate con procioni, opossum, disavventure estetiche e non, figuracce più o meno estese.
Ogni tanto vi ricorderà come niente fosse, chi è e di cosa soffre. Credo sia questo a spaventare e disorientare chi legge una pagina sì e una no. Le persone restano turbate dalla nonchalance con cui passa dal sarcasmo puro al donare un pezzo doloroso di sé... e questo lascia con la bocca amara, lascia sgomenti. Quasi diventa fastidiosa quando cerca di spiegare quanto è difficile. È sempre difficile seguire la sofferenza altrui.
Eppure anche i momenti peggiori, sono illuminati da qualcosa che possiede solo lei. Qualcosa di unico a cui non riuscirei neppur volendo a dare un nome.
Vi riporto un pezzo che credo di aver amato tanto. Sta raccontando una crisi d'ansia veramente brutta, in contemporanea il piede si gonfia e sanguina per l'artrite reumatoide. È sola in hotel, non ha mai visto la neve e vederla scendere le dà una speranza strana. D'un tratto esce senza pensarci, in ciabatte, poi abbandona anche quelle e prende a camminare in mezzo alla neve, con l'arto ancora sanguinante il cui dolore è alleviato dal freddo.
Mentre mi voltavo e guardavo verso l'albergo, mi accorsi che le impronte che mi avevano seguito fin lì erano diverse. Da un lato erano lucenti, piccole e bianche. Dall'altro erano sformate dal mio passo zoppicante e in corrispondenza di ogni tallone c'erano tracce di sangue rosso vivo. Mi parve una metafora della mia vita. Un lato leggero e magico. Quello che vedeva sempre il bene. Fortunato. L'altro insanguinato e strascicato. Mai del tutto in grado di tenersi al passo. Era come la poesia sulle impronte di Gesù nella sabbia, ma con meno Gesù e più sangue.
Jenny ci mostra due lati completamente opposti di sé: uno lucente, sarcastico, divertente, pieno d'idee e di voglia di divertirsi; l'altro rallentato, terrorizzato, angosciato e schiacciato dalle responsabilità e dai sensi di colpa. Buio e luce sparati dritti addosso al lettore, senza risparmio.
La sincerità di questa donna fa spavento. Nessuno ha il coraggio di esporsi al pubblico come carne da macello e divenire talvolta oggetto di scherno di chi non sa nulla delle malattie mentali e della vita che conducono a fare, di come condizionano un essere umano.
È un libro pieno, intenso, fatto per coloro che non hanno voglia di nascondersi ancora dietro maschere di cera. Un libro per chi ogni tanto ammette anche di essere mortale.

giovedì 4 agosto 2016

Like a phone without connection

A volte proviamo in tutti i modi a farci raggiungere dalle persone a cui teniamo, ma ci pare di urlare nel vuoto, in maniera disperata, a polmoni infiammati. E che di là non sembrano nemmeno tendere l'orecchio. 
È dura quando la comunicazione sa di telefono rotto o di una barca che affonda.
E ci si sente sempre più lontani, ma non solo da loro. In generale dalla realtà.
Perché forse quelle poche persone, nei momenti in cui sei perso, sono l'unico appiglio con la realtà.
E forse perdendole si perde anche la realtà.
Si combatte sempre nella vita per qualcosa e io mi sono resa conto che quando tengo a qualcuno, la mia lotta è sempre doppia: una lotta per farmi voler bene e una lotta per essere capita senza fraintendimenti, come avviene un po' da troppi anni. Un triste tormentone. 
Spesso mi sono sentita come un libro che la gente legge all'inizio perché sembra divertente, ma poi comincia a saltare le pagine. Mi sono sempre chiesta chi tra me e gli altri cambiasse lingua lungo la lettura.
A volte ci si dovrebbe ricordare che le persone sono persone anche quando smettono di essere divertenti, anche quando hanno bisogno di un appiglio per andare avanti.
Da qui si capisce se gli si è voluto bene sempre o se il bene non c'è stato mai.
Dalla voglia di capire il dolore e non far sentire il vuoto dentro a chi è importante.

venerdì 15 luglio 2016

Recensione: Guida astrologica per cuori infranti, Silvia Zucca

Voto: ****
Quanto vi piace l'astrologia? Se non siete tipi da segni zodiacali, mappe natali, ascendenti, trigoni e opposizioni... beh c'è una partita di football nell'altra stanza. Più di quello non ho avuto tempo di organizzare su due piedi.
Ciancio alle bande -dai che avete capito-, Silvia Zucca ci porta in un divertente mondo in cui la personalità di ciascuno viene analizzata secondo le proprie coordinate astrologiche. 
Non sarà un'impresa semplice come pensate...

Alice, la nostra simpatica protagonista della bilancia, lavora per una piccola tv, quando tra una delusione e l'altra incontra Tio -Tiziano-, un gemelli che diverrà subito il suo migliore amico, nonché la sua guida astrologica.
L'idea partirà per gioco, ma poi verrà utilizzata come paracadute per recuperare l'emittente che rischia di chiudere i battenti. Riusciranno i nostri eroi a salvare le sorti dell'umana stirpe?!
Quale sarà mai il segno giusto per la bella e confusa Alice, che dopo la disavventura con l'acquario non riesce più a riprendere quota?!
Riuscirà a non perdere il posto di lavoro e a fare una buona impressione su Davide Nardi, giunto appositamente per far rigare dritta la situazione?
ACQUARIO
Abituate ad anni di lotte con tutti gli altri segni dello zodiaco, l'Acquario vi stupirà... dandovi «ragione». Sempre. Per poi continuare la sua vita esattamente come prima. È uno stronzo?
«Ovviamente sì», ammetterà col sorriso. Ma è soprattutto un tipo che fa dell'originalità e della distinzione dalla massa il suo principale motto, adottando per principio l'idea opposta alla vostra. Poco importa se questo lo obbligherà a dire che la Terra è piatta o che su Saturno potrebbe, in fin dei conti, esserci vita, perché peggiore dell'errore per lui è l'omologazione.


Confesso che da brava gemelli salto un po' di palo in frasca; non vado mica dall'iperdrammatico all'iperleggero... ok mi fermo, sto inventando parole nuove e non ho la licenza. Di questo passo ho il petaloso facile.
Bene, se siete permalosi non leggetelo, che è pieno di frecciatine neanche fossero gli indiani. Realistico in maniera sfacciata dal punto di vista tecnico -gli appassionati di astrologia confermeranno sicuramente che le descrizioni caratteriali sono impeccabili-, è un libro gustoso da leggere. Una pagina tira l'altra.
La storia è frizzante e piena di colpi di scena, a focalizzazione interna e il narratore è proprio la protagonista. Il risultato è un mix letale tra il dramma leggero -prendete la cosa all'acqua di rose- e una massiccia dose di risate.
L'autrice ci pone davanti un'eroina moderna curiosa e alternativa nell'approccio con le persone.
Gli uomini con cui ha gli appuntamenti, vengono analizzati dall'infallibile amico astrologo, pronto a fornire i suoi preziosi consigli. Consigli che il più delle volte fanno più ridere delle vicessitudini imbarazzanti in cui la stessa si ritrova.
Speravo che ci fosse un approfondimento più preciso su certi segni che vengono toccati poco, ma sarebbe stato inverosimile che una ragazza uscisse con tutto lo zodiaco. Avrei voluto vedere come si sviluppava la trasmissione, però poi la vicenda prende più toni personali per stringere il cerchio. Il che non mi è dispiaciuto affatto.
I segni più divertenti per dinamiche, son stati senz'altro l'ariete in primis -ho riso così tanto da non respirare più-, seguito a ruota dall'imprevedibile sagittario. Anche il gemelli in certi punti non scherza affatto... dipende dal gemelli.
Silvia Zucca si rivela vincente nella poliedricità: non viene fornita una semplice storiella frivola per ridere e basta; all'occorrenza offre affondi e spunti di riflessione. Come se questa leggerezza sulla quale fluttuano le parole, tendesse di quando in quando a cadere un po'. Ci mette di fronte a un'anima che non si scopre per intero nella sua crudezza, ma talvolta s'incarta d'ironia per sfuggire all'amaro a cui la vita obbliga ciascuno.
Ci restituisce la figura di una persona di una certa profondità, ma questa profondità si scava poco la strada per venire alla luce. Come se preferisse restare nascosta per educazione, per non attanagliare il prossimo con qualcosa che potrebbe essere percepito come "pesantezza", ma ogni tanto facesse capolino per non essere dimenticata. E quando fa capolino dona scorci fantastici.

Parigi è come camminare a piedi nudi sui vetri. A ogni sguardo ti tagliuzzi spingendo un po' più a fondo le schegge nella carne. Coi suoi bistrot colorati, Coi suoi viali alberati. Coi suoi angoli da cartolina, c'è sempre una coppia che si bacia o ti chiede di scattarle una foto. Dovrebbero scriverlo sulle brochure, che se hai il cuore spezzato non ci devi venire, a Parigi. 


lunedì 9 maggio 2016

Abbiate il coraggio di restare, quando ne vale la pena

Non è vero che l'orgoglio distrugge tutto. Credo sia più un escamotage inventato da chi vuole fare il bello e cattivo tempo con le persone, pretendendo che le ferite inferte non abbiano mai conseguenze.
Nella mia vita mi sono posta almeno un'infinità di volte il problema: di chi mi sto circondando? Sono affetti sicuri o mi stanno facendo solo del male?
Sono davvero le persone giuste quelle che ho intorno?
Vi assicuro che l'orgoglio tante volte vi salva.
Non mi ritengo una persona estroversa, anche se così può sembrare per via delle maniere rassicuranti, di un modo di porsi solare.
Purtroppo il sole stesso proietta le ombre più grandi, non è così semplice essere carini con tutti e fidarsi degli stessi. La fiducia è similare a cerchi concentrici e solo chi è capace davvero di starti vicino, merita di gravitare in quelli più stretti. Quelli dove hai bisogno di sentirti al sicuro e non ti devi preoccupare di essere accoltellato alle spalle, perché in quella zona lì hai la percezione che vada tutto bene. Come se il mondo fosse pieno zeppo di pericoli e rientrando a casa, in quella casa lì, fossi automaticamente salvo.
Se in questa casa si vuole davvero mettere qualcuno, è necessario tagliar fuori le persone quando non possiamo lasciarci andare, né fidarci. In questo l'orgoglio mi ha aiutata tanto; non si può regalare il proprio mondo a chi lo ricambia prontamente con il nulla più assoluto o con un contentino per farti star buono. Non si può svendere l'interiorità come fosse in saldo, a chi ci passa sopra con le scarpe sporche e la distrugge.
Le persone orgogliose hanno più il problema di tagliar fuori tutti, al punto tale da fidarsi solo di se stesse... ma nemmeno quella è la strada. Nessuno è un'isola e il sospetto continuo è deleterio e autodistruttivo quanto distribuire a caso pezzi di sé in maniera spropositata e ingenua.
Eppure provare affetto resterà sempre un salto nel vuoto. Un disperato salto nel vuoto in cui non sapete se verrete raccolti o se vi lasceranno cadere... e anche se vi raccoglieranno non vi sentirete sicuri per sempre. Non lo sarà perché anche coloro a cui tenete profondamente sbaglieranno, come sbagliate voi e come sbagliano continuamente tutti gli esseri umani. Sbaglieranno e vi faranno stare di un male cane, ma a forza di soffrire, prima o poi giungerà il punto in cui conoscerete i vostri meccanismi interni così bene, da capire presto chi merita di restare e chi merita quattro calci nel sedere.
Perché chi merita di essere messo alla porta proverà una sofferenza di ciorcostanza, marginale per il male che vi ha inferto, anzi minimizzerà e non sprecherà il suo prezioso tempo per rimediare.
È impossibile circondarsi di persone perfette, che non combinino guai. Perciò tenetevi strette quelle imperfette, che a volte vi fanno anche tanto male; basta non cadere nel tranello del "se mi feriscono così tanto, probabilmente contano davvero per me"... il che è esatto solo in parte. L'affetto non può essere unilaterale e se è sempre e comunque doloroso, se sbattete contro un menefreghismo continuo rispetto a quello che provate, come vi sentite, quello che vivete, tagliate. Zac, come una cesoia. Tanto quella gente lì che non ha fatto altro che graffiarvi all'infinito senza curarsene, non tornerà. Non tornerà nemmeno se avrete lasciato la porta aperta, aspettando con ansia come un cane al rientro del padrone. Non tornerà e basta ed è sempre meglio farsene una ragione, perché chi ha avuto poca cura prima, non ne avrà poi.
Chi ci tiene davvero, chi è destinato a restare, intaglierà porte nei vostri muri e le prenderà a sprangate pur di aprirle. Le persone da cui non dovete scappare via, sono quelle che stanno male quanto voi per gli errori nei vostri confronti ed affondano quando cercate di allontanarle; sono quelle che non sempre fanno tutto perfetto, ma gli manca un pezzo se sparite dalla loro vita. Glielo leggete negli occhi, il dolore di un'esistenza senza di voi; quanto per loro sia insostenibile.
Ciascuno deve crescere e maturare a suo modo; ho impiegato tanti anni per capire che non tutti ti sfrutteranno, ma in tanti ci proveranno.
Lottate sempre per quei pochi. Quei pochi che sono pronti a fare i salti mortali pur di riprendere a ridere e scherzare con voi come tempo prima; quei pochi che quando vi vedono sanguinante per colpa loro, si fermano, raccolgono i resti e si mettono con pazienza a ricucirvi da capo a fondo e poi v'insegnano di nuovo a camminare; quei pochi che quando avete ricadute per quelle ferite, stanno lì e vi rialzano altre cento volte, finché non state su.
Lottate per chi a volte vi scoraggia verso il genere umano, ma poi vi fa capire che gli esseri umani talvolta hanno il cuore enorme e sanno rimediare.
Lasciate sempre aperto uno spiraglio a chi vuole rientrare per mettere a posto la stanza che ha lasciato in disordine e siategli profondamente riconoscenti quando ci è riuscito.
Questi sono legami veri, per cui bisogna dare anche l'anima; chi non fa questo sarà solo di passaggio... in tal caso accompagnateli alla porta gentilmente, con tanto di pedate sulle chiappe date col taccio dodici.

venerdì 6 maggio 2016

Recensione: Il catino di zinco, di Margaret Mazzantini

Voto: ****1/2
Dal tratto spietato, deforme, inclemente e pure capace a modo suo, di perdono, Margaret ci sputa in faccia la morte. E ce la riversa addosso con quell'audace e sfacciata cattiveria di cui solo lei e pochi altri, sono capaci. 
Siamo sulla bara della nonna. Così vecchia, così morta, così indifesa eppure si porta dietro in maniera strana quell'odore della vita che è stata.
Margaret è la nipote di Antenora; la scruta con un occhio indagatore, a cui non sfugge alcun dettaglio -anzi possiede anche troppa memoria e sarebbe meglio che riuscisse a dimenticare qualcosa- e la racconta.
Su questa via prende forma un viaggio nel tempo, nella memoria. Corpi, voci, dolori che si rincorrono concatenati tra un'esistenza e l'altra. Delusioni di ciascuno, di tutti, di nessuno.
La protagonista sulla bara della nonna percorre il passato della defunta. Lungo quanto un libro, ma in un battito di ciglia. 
Narra del suo trisavolo che ha perso la figlia preferita, della bisnonna dalla sorella pazza... narra di suo padre Vittorio che rimpiange il coniglietto che ha tanto amato e la madre gli ha ucciso. Racconta del nonno, così tanto legato al mare negatogli a lungo dalla moglie. "Il catino di zinco" è un girotondo immenso di affetto, di rancore e perdono. Perdono tuttavia dal sapore acre, costato troppo. In questa famiglia le persone si perdonano ma c'è sempre l'amaro in bocca. C'è sempre il torto che torna alla memoria nonostante sembri "passato". Credo sia ciò che mi ha colpita di più, questo ritorno incontrastato del dolore. Sembra quasi che vinca sul bene... o forse la morale è proprio che nonostante le ferite, in una famiglia vera ci si ama ancora e ci si prende cura di un parente anche se ha ucciso il coniglio di tuo padre e ancora non ti va giù, anche se l'odio rimane sotteso e latente tra le pieghe di un'anima inquieta e nel contempo agitata.

Fa freddo. È buio. Ma lei non mi chiede di rientrare. Le basta star lì all'addiaccio insieme a me. Potrei tenercela tutta la notte. È mia. Mi cerca con quello che di vivo le è rimasto in corpo. Ora potrei fargliele pagare tutte, e finirla come il coniglio di mio padre, stringendole intorno al collo la cinghia della mia borsetta. Vederla andare paonazza e gridare: «Perché? Perché glielo hai ammazzato, porca?!». O, anche, scannarla al ritmo di una macabra filastrocca: «Porcaccioncella, non si castrano i maschietti, non si ammazzano i coniglietti ai bambini soli soletti...». E la mollerei cadavere in quel prato, con i gattacci a gnaularle intorno. Ma che senso avrebbe, ormai...
L'onesta brutalità è quasi liberatoria. Può sembrare un discorso orribile e forse lo è, ma l'autrice sdogana una quintalata d'ipocrisia gratuita e vi serve il reale su un piatto d'argento... e non chiede il permesso.
È un libro fastidioso... tanto. Tutto ciò che è vero è fastidioso; perché il lettore medio si aspetterebbe di trovare una nipote premurosa, che racconta alla Teletubbies una storia rosa e fiori. Non si è abituati alla sfacciataggine di una che spiattella il suo rancore per una nonna ormai vecchia e stanca. Proprio perché è vecchia e stanca se ne prende cura, ma non sa arrivare a dimenticare i torti che ha inflitto ai suoi cari. Non riesce a fare il solito discorsetto ipocrita e buonista che si affaccia ogni qualvolta muore qualcuno. Quegli sprecatissimi: "Era brava e buona". No... quelle cazzate le spazza via il vento. La mancanza di senso di colpa rende tutto meno scivoloso e più sgradevole. Sgradevole in quanto difficile da assimilare ed accettare. Proprio per quello si tratta di qualcosa di autentico.
Una narrazione ruvida, in cui Margaret non cela difetti né pregi del proprio albero genealogico. Antenora si configura allora come un tassello di un puzzle immenso, molto più grande. Un disegno di cui solo guardandolo dall'alto si può comprendere la completezza.

Scendo dal letto e mi ritrovo in giardino. Cammino sui campi, lì dove il sole tramontava quando ero bambina. Grazie nonnaccia dell'invito a questo sgangherato walzer di famiglia nel quale volteggia tutto il parentame: ogni giro un nuovo viso. Il mio carnet è pieno zeppo! Dimmi, a chi devo concedere l'onore del primo ballo? Perché proprio io... Cosa ti fa pensare che io somigli a tutti voi? Se il sangue fosse davvero così affollato d'anticaglie, non potrebbe nemmeno scorrere nelle vostre vene.

La sua storia abbraccia altre storie. Come quella di suo padre Vittorio, pecora nera della famiglia perché più delicato, sensibile rispetto agli altri figli. Narra di quando dopo la morte del fratellino che gli era vicino, per tifo, si era affezionato a un coniglietto e di come questo animaletto è stato ucciso e cucinato brutalmente. Vittorio mi colpisce, perché è diverso. Sembra essere l'unico a slegarsi dal meccanismo rancore/affetto in cui sembrano cadere i componenti di tale famiglia.
Il suo dolore è un motore più grande, lo spinge proprio al distacco. Inconsciamente pone un lastrone di marmo tra lui e questa madre che l'ha sempre poco capito, così poco da ferirlo a sangue e quella ferita pulserà a vita. Di Vittorio la figlia non racconta, quando Antenora si ammala. Resta il grosso dubbio ... un interrogativo: lui ha delegato a sua figlia il ruolo di starle vicina oppure è riuscito almeno un po', a spostare il lastrone e provare affetto senza veleno?
La risposta purtroppo non ci è data. Non abbiamo le risposte, perché questa narrazione apre la testa a infiniti  quesiti, ma non offre le soluzioni.
La lezione più grande che ho imparato è perdonarsi. Perdonarsi anche se si prova rancore e anche se si finisce a provare addirittura odio per i propri cari... perché vite ed anime diverse s'intrecciano in modi inaspettati ed è normale non esserne sempre felici. È normale che se ci si sente feriti si fa del proprio meglio, ma sarà un affetto più tiepido. Insegna ad accettare certi limiti dei rapporti familiari e a superarli, seppur conservando dentro le emozioni negative. Il rancore per i torti subiti è normale; l'importante è sforzarsi di restare umani il più possibile e non lasciarsi completamente uccidere dalle emozioni negative.

lunedì 18 aprile 2016

Depressione e lotte con i fantasmi. La quiete dopo la tempesta.

Ti guardi allo specchio e non sei niente. Niente per nessuno. I fantasmi ti buttano la testa sott'acqua e fanno in modo che tu lo creda. Fanno in modo di distruggere la persona che sei e ti fanno cadere così in basso da non riconoscere nemmeno più i tuoi lineamenti. 
E Dio solo sa quanto ciò mini la personalità dalle fondamenta. Dio solo sa quanto fango devi mangiare, quanta fatica devi fare in più per condurre un'esistenza normale e dimostrare anche tu che sei vivo. 

Tanti hanno una smania di vivere così grande che per capire che esistono, devono lanciarsi da un deltaplano. E poi ci sei tu, che per quel gelato preso sotto casa, hai lottato in una maniera così agghiacciante e debilitante, che a un certo punto per sentirti vivo ti basta. Alzi gli occhi al cielo e pensi che lo spicchio che stai guardando te lo sei guadagnato anche tu. Te lo sei guadagnato anche se le persone a volte ti accantonano, non capiscono te, il tuo modo di sentire, di vivere, di soffrire e reagire a questo fiume incessante di coltellate che esistere t'infligge.
Ci si può girare intorno, ma il motivo vero per cui si viene accantonati, è che chi si porta dietro il buio è più delicato, più ingestibile e decisamente poco pratico... e il mondo va veloce e sono tutti poco inclini a ragionare col proprio mondo interiore. Vanno di fretta e chi sotto al sorriso nasconde altro, è un peso. 
Solo chi ci è passato capisce perché la mattina ti svegli e non vedi nemmeno il sole.

Finisci a provare fatica per qualsiasi cosa e pensare che la caduta dopo non ti farà più vedere la luce. Perché il buio ti prende e non ti fa più capire niente. Nemmeno dove finisci tu e inizia l'immensa sofferenza che ti dilania e ti affonda come niente. 
Distrugge tutti i momenti che avresti potuto usare per vivere davvero, invece di sopravvivere col fiatone e l'angoscia. In attesa che l'incubo finisca, è come lottare con i fantasmi.

Il nemico peggiore è perdere la voglia, la speranza. Il pericolo peggiore è sempre convincersi che sia finita. Ma le cadute sono cadute perché non durano per sempre; ci si rialza. E così le tempeste. Le tempeste sono terribili, ma i momenti di cielo sereno che regalano poi, non hanno la stessa bellezza di un cielo sereno normale; è più luminoso, speciale. Il cielo dopo la pioggia brilla di un qualcosa che è stato pulito fino alle viscere ed ora è nuovo. Il sereno lavato di pioggia si riconosce sempre, così come chi ride dopo aver covato il pianto dentro.
Non sono anime come le altre e non devono vergognarsi di essere diverse.
Nessuno dovrebbe vergognarsi di soffrire. Non è il dolore in sé per sé ad essere sbagliato, ma la società che ci fa sentire sbagliati perché secondo la sua idea dovremmo essere per forza tutti felici. Così quando i pugnali arrivano lo stesso, c'è anche l'aggravante di essere ingranaggi sbagliati.
Dimenticate tutto questo. Dimenticate il vostro sentirvi in errore, dimenticate l'oblio.
Raccogliete solo le energie per riconoscere la luce e correrle incontro. Abbracciatela e cercate di sentirla vostra almeno per un istante tutto vostro.
Durante la lotta vi sentirete confusi, persi, spaesati, soli.
Invece non è vero. Ci sarà sempre qualcuno capace di capire e lottare insieme a voi quando non ne avrete le forze, quando cadrete così tanto da non reggervi più sulle gambe.

E tornerà di nuovo il sereno. Fin quando non conquisterete il sole.