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mercoledì 1 marzo 2017

Recensione: Ciò che Inferno non è, di Alessandro D'Avenia

Voto: * * * *
Trama: L'occhio analitico e introspettivo dello scrittore presenta Palermo negli anni '90: c'incanta con la figura di Don Pino Puglisi e con le storie dei numerosi giovani che hanno interagito con lui. 
È il 23 maggio del '92 , giorno in cui dei ragazzi assistono dalla piscina, al telegiornale che mostra l'attentato a Giovanni Falcone. 
Federico -uno dei ragazzi, che talvolta funge da narratore interno- resta così stupito dalle opere di Padre Pino Puglisi, che a soli diciassette anni decide di non partire per l'Inghilterra, al fine di aiutare il sacerdote con le famiglie di Brancaccio, oppresse dal macigno della mafia. La strada verso la verità non è sempre la più semplice; anzi è una lotta continua, di cui gli innocenti portano i segni sulla pelle. La via per imparare a non avere paura è la più impervia e lunga. Federico, dal suo nido protetto e ovattato, è costretto a guardare il mondo per ciò che è effettivamente; ad abbracciare la vita per la sua bellezza ma anche per le brutture e atrocità di cui è capace. 

Recensione: Non è la prima volta che ho a che fare con un libro di Alessandro D'Avenia. È uno dei rari scrittori che seguo fedelmente ogni volta che usa la penna da qualche parte. No dai, non così stalker, ma avete capito. Difficilmente resto incollata e fedele storia dopo storia, ma lui riesce a tenermi lì. Ci riesce perché è interessante, è profondo, sa farmi ritrovare il filo di me stessa, la speranza quando la perdo. 
Egli pone sempre in punta di piedi tematiche difficili e spinose, le getta davanti agli occhi del lettore come fossero una piuma, quasi con l'innocente e terribile onestà dei bambini. Dà a ogni cosa il giusto nome e quel nome si punta in testa come un chiodo: presenta gli avvenimenti in maniera cruda ma nel contempo poetica. Ciò che mi stupisce sempre dell'autore è che, senza edulcorare gli avvenimenti, riesce a renderli sacri, solenni e ciò vale tanto per un attentato, quanto per la visione di un tramonto. 
È come se trovasse la cornice perfetta per ciascun quadro/scena, così da convincerti a guardare a prescindere dall'argomento. Sa aprire le giuste finestre, in modo che diventi quasi matematico che qualcuno si affacci per curiosità. La qualità più grande che noto in lui è l'innata capacità di valorizzare qualsiasi cosa, fino a renderla sontuosa e irresistibile. Anche una scena trasandata e trascurabile, con lui raggiunge il fascino di una donna in vestito da sera: tu guardi lì, sei attratto dalla sua visione del mondo neanche fosse una calamita. 
Per rendere ancor meglio il concetto: dove punta il dito, gli altri guardano senza fiatare. Se da un lato della strada ci fosse il Presidente degli Stati Uniti a passeggio e dall'altro una foglia che cade e D'Avenia volesse portarvi a fissare l'attenzione sulla foglia, vi assicuro che ci riuscirebbe. 
Prima di entrare nel vivo della storia andiamo a conoscere Palermo. La città è caratterizzata nel dettaglio dalle increspature del mare, all'arte, agli odori, alle ingiustizie. Ne scaturisce un quadro poliedrico e sfaccettato in cui nessun dettaglio va perso; tuttavia un'indagine così minuziosa, un quadro così fedele, finisce per penalizzare la narrazione nella fase iniziale, che appare lenta. Scorrono molte pagine prima di giungere al cuore vero e proprio della storia, però l'attesa come immaginavo vale la pena. 
I temi principali e ricorrenti sono l'amore e il coraggio, destinati ad accarezzarsi e rincorrersi fino allo sfinimento. Vengono posti interrogativi impietosi, a cui molti sono necessariamente chiamati a rispondere, senza mezzi termini, con la vita. 
È il caso di Padre Puglisi, che pur di non piegarsi alle minacce continua con la sua missione: salvare le persone, ma soprattutto i ragazzi. Quelli disperati, quelli persi che a forza di cercare la via nel buio si sentono abbandonati e si lasciano fagocitare da quelle fauci nere. Tutti gli oppressi che, non avendo mai conosciuto l'amore, sanno solo opprimere e distruggere a loro volta. 
Federico ha un carattere puro e incontaminato, vive a Palermo in un quartiere sereno. L'animo sognatore e poetico che alberga in lui, va in tilt appena si scontra con la realtà cruda di Brancaccio: il quartiere che non sogna, il luogo che squarta l'anima dei propri abitanti, che riduce i sogni in cenere. Perde una bicicletta, prende un pugno in faccia, ma trova l'amore. 
Egli promette di ricavare un attimo per aiutare il sacerdote prima di partire per Oxford e all'improvviso ne esce cambiato, non vuole più partire. 
Don Pino lo porta con sé a trovare delle famiglie e in una casa c'è la bellissima Lucia, ragazza molto più pratica e disillusa. Per lei i sogni sono più difficili da realizzare, il successo è da costruire a partire da una vita di stenti. Il suo luogo è controllato da Cosa Nostra, i cui rappresentanti prendono i soprannomi di Cacciatore, ’u Turco, Madre Natura e rispondono alle sue leggi.
Lo scambio tra i due giovani è interessante, perché lui le insegna ancora a credere nei sogni e lei lo porta con i piedi per terra, gli fa vedere ciò che deve vedere e non solo ciò che vuole vedere. Lui che vive di sole parole, con la sua presenza si riempie di realtà e lei impara che le parole non sono promesse vuote, ma hanno una loro anima. L'equilibrio che si genera tra i due è intenso, vero.
Lo scrittore utilizza, per trattare l'emozioni, la stessa sensibilità con cui rende i paesaggi:

Il suo modo di ridere e di fare le pause mi mette le mani dentro l'anima. Me la fruga e ne spalanca le zone vuote. La sua presenza mi dà possesso di me stesso. Più la guardo, più desidero avere qualcuno da perdere, qualcuno per cui piangere, con tutto il dolore che comporta mettere qualcuno nel cuore del proprio cuore. 
La figura di Don Pino è paterna. Così immensa da abbracciare coloro che si sono persi. Come se "tutto porto", mantra ricorrente nelle descrizioni che D'Avenia fa di Palermo, fossero in realtà le sue braccia. Braccia dove la disperazione approda e trova qualcuno ad attenderla e placarla.
Il libro manda un messaggio forte: la più grande rivoluzione è l'amore, tanto che Don Pino replica alla morte con un sorriso. La violenza non è la soluzione, pone solo altre domande che avranno sete di risposte, sete di altro sangue e così via. Si riduce tutto a un circolo di prigionia. Ciascuno invece ha bisogno di essere amato. La speranza non è un bene per pochi.

E in quello sguardo loro vedono se stessi com'erano da bambini, il Cacciatore aveva un altro soprannome: Ricciolino. Era il nomignolo con cui lo chiamava sua madre. Quel sorriso lo riporta lì, quel sorriso gli dice: non sai quel che fai, tu sei altro. Quel sorriso è il castigo peggiore che possa capitare a un assassino, e il Cacciatore non potrà più dormire la notte. Ci sono delitti che cercano i loro castighi e finiscono col trovare solo il loro perdono. 

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