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domenica 7 ottobre 2012

Bagno di sangue



Urlo di gallinaccio, seguito a ruota dal suono della campanella. <<Siria!>>.
Mi sveglio bruscamente dal mio torpore. <<Si prof!>>
<<Stavi ascoltando la lezione, si?! In tal caso meglio per te, domani mi ripeti tutto il capitolo>>.
Quella vecchiaccia malefica, ma come cavolo è che non le sfugge niente?! Ero troppo occupata a riflettere sul catrame che annebbia i miei ricordi, figurati se con tutti i casini che ho potevo starla a sentire. Tanto nulla di ciò che cerca d’inculcarmi può tornarmi utile adesso, ma questo è meglio che non lo dico. Sbuffo <<Si ok prof>>. Come ti pare, l’ennesimo quattro. Sai quanto me ne frega. Di tante cose che potevano tornarmi utili, i miei mi hanno insegnato proprio quella che non mi porterà a nulla; l’educazione. Che non t’impedisce affatto di fare la cosa sbagliata. Al massimo eviti di rispondere male a una befana che potrebbe farti espellere. Poi?!
Fortuna che non si cambia classe, posso sbracarmi a dormire, tanto arriva Marini, quello non si accorge nemmeno se lanciano una bomba in classe, potrebbe esplodere la scuola ma continuerebbe a blaterare di numeri. Altre cose inutili che servono solo a lui.
Cerco di godermi l’attimo, che sono stanchissima, di approfittare del timido raggio di sole che scalda il mio banco, ma non mi è concesso. Ora arriva Benedetta, che più che altro è una maledizione. Non ha un solo amico in classe, in due anni non ha mai rivolto la parola a nessuno e andava tanto bene così. Finché un giorno non mi sono rovinata con le mie mani, passandole l’unico esercizio da me fatto bene al compito in classe. Che poi l’avevo fatto solo perché m’irritava il suo stupido starnazzare di quando non sa qualcosa. Rilassati secchia, a cosa ti serve sapere tutto?!
Fatto sta che adesso è diventata mia amica. L’essere mia amica secondo lei è una buona giustificazione per potermi pressare a morte ogni qualvolta si trova in difficoltà con il suo stupido studio.
Certi secchioni tra l’altro sono un enigma. Non è qualcosa di umanamente fattibile, che capiscano solo cose di scuola e collocandoli al di fuori sono zero. Non puoi avere cervello solo per lo studio poi smetti di studiare e sei la persona più inutile che sia mai esistita sulla faccia della terra, l’unica con cui non si può fare neanche il più elementare dei ragionamenti, che va in confusione. Odio la gente così. In modo terribile poi.
Come pensavo; il tempo di terminare i miei pensieri che si fionda sul mio banco, buttandoci sopra metà del suo lardo.
<<Siria, tu questo l’hai fatto?! Guarda saranno cinque volte che provo ma è sempre sbagliato, poi mi viene sempre lo stesso risultato, a te?>> Ecco, proprio quello che intendevo.
<<No, non l’ho fatto, ma se in cinque volte ti riporta sempre uguale potrebbe anche aver sbagliato il libro, può capitare eh. Adesso lasciami dormire, che ho mal di testa>>.
Sparisce verso il suo banco, fortunatamente senza aggiungere altro.


Già mi sta aspettando Rita, la mia migliore amica. Ero convinta che fosse tornata a casa, doveva uscire un’ora prima, invece mi ha aspettata. Di solito mi fa piacere, oggi no. È troppo intelligente. Fiuta le cose al volo.
Raccatta le sue borse, quando va a scuola pare sempre che parte, mi viene incontro scendendo gli scalini quattro a quattro. Io vengo dall’uscita secondaria. Il tempo di guardarmi in faccia e s’incupisce, come se avesse visto un mostro.
<<Com’è andata?! No, aspetta. Hai un’aria sconvolta, che è successo dai>>. Lo sapevo. Potrei mentire al mondo, ma a Rita mai.
<<Niente, ho dormito poco ieri sera>>. Fisso a terra. Guardare il pavimento nero mentre si dice una bugia la fa sembrare credibile. L’importante è trovare il modo di nascondere gli occhi quando la si dice. Quelli non nascondono mai niente.
<<Si ok, bella la versione per gli sconosciuti. Hai una faccia che mi pari morta e delle occhiaie da panda. Mi vuoi dire che c’è?>>
In fondo che non ho dormito era vero. Nessuno ce l’avrebbe fatta. Chi ce la fa in simili situazioni è un fenomeno. Dirle tutto non mi sembra la trovata più geniale della mia vita. Così decido di rifilarle la solita verità parziale che si dice per comodità.
<< Ieri ho iniziato la versione di latino che erano le undici. Quando ho finito ho scritto a Giacomo. Ho aspettato un bel po’ >>. Ecco qui. Non bugia, non verità. La giusta via di mezzo. Mi dispiace però. È l’unica persona che non merita un trattamento del genere, ma è meglio così. È troppo sensibile per certe cose. Non so esattamente come prenderebbe tutta l’intera faccenda. Posso accettare il “sei una cretina”, ma non si fermerebbe lì. I limiti li ho scavalcati tutti. Anche troppi, per tornare indietro.
<<Ma non ti ha risposto per niente?!>>
<<No, nulla. Mi riprenderò. Non è poi la fine del mondo>>. Fingo un sorriso che non mi riesce. Cerca di darlo per buono, anche se non risulta credibile. In fondo conviene anche a lei. Preoccuparsi per me la fa stare in ansia. Lo sa che quando la combino più grossa del solito tendo a nasconderglielo. Spesso perché mi vergogno. Lei in fondo è perfetta. Non ha mai fatto la cosa sbagliata in vita sua. Non potrebbe mai capire il mio continuo tuffarmi a capofitto in situazioni che non portano a niente, il mio agire spinto dalla voglia di un qualcosa di concreto, che non trovo mai.
Sorride in modo fasullo, dice “Almeno riposati, mi fa brutto vederti così”. Le rispondo che lo farò. Fortunatamente non c’è modo di continuare il discorso, è già arrivata mia madre. Parcheggiata parla al telefono. Suona il clacson. Ha sempre fretta quella. Troppa per accorgersi di ciò che le accade intorno. La saluto con un mugolio stinto poi mi siedo. L’auto è liberatoria e distruttiva, ti scherma da tutto quello che hai intorno. Ti fa sentire al sicuro, libera di cacciare via la sporcizia che hai dentro. Così mentre mamma parla del pomeriggio, dei suoi impegni, della vacanza che “faremo” l’estate prossima, delle lezioni di danza di mia sorella questa settimana, io mi affogo nello zaino.
Soffoco più lacrime possibile, bagnando la borsa, che stringo sulle gambe. Lacrime stonate che non trovano suono, né identità. Vanno a perdersi inutilmente nella stoffa, tra i miei affanni, come me, che non mi ritrovo più da un pezzo. I morsi della paura li senti sempre quando fanno più male, quando ti trova vulnerabile e si prende gioco di te. C’è uno stagno sulla borsa, tiro su col naso, forse ho bagnato i libri, cerco di asciugarmi la faccia, che la strada per casa non è poi così lunga. Non toglierò mai il rossore in tempo, ma sono certa che nessuno lo noterà, che sono rossa paonazza e ho pianto per venti minuti buoni, come anche per le due ore di ieri sera. Se qualcuno lo nota, basta dire che ho il raffreddore e ci credono tutti. Tanto che problemi ha una quindicenne. La vita è lunga per preoccuparsi.
Mi trascino in casa, aggiusto i libri sulla mensola, se no poi rompono per il disordine e non ho voglia di mettere a posto dopo, lo zaino lo ripongo sulla sedia. Cecilia, mia sorella, irrompe nella mia stanza. Ha sei anni. Rompiscatole, non ti ho mica dato il permesso. Non m’importa se adesso non comprendi il valore dell’avere i propri spazi ed al momento ragioni come un criceto, qui, nella mia stanza, non ci devi assolutamente entrare.
Scavalco con due falcate il mio disordine, per arrivare in cucina. Ho fame. È proprio quello il problema. Ho fame ma lo stomaco si chiude lo stesso. Non si può mangiare così. Oggi però non voglio storie, non voglio né sentire mia madre lamentarsi, né nessun altro. L’unico motivo per dare uno sguardo a quelle due cose che ho nel piatto, prima di andare in bagno e vomitare.
Tanto mamma non se ne accorge, è di là al telefono che parla con Isa, la sua amica. Discorsi più importanti di me, tutto lo è.


Riaggancio il telefono. L'ordine è fatto.
La sera mi sembra di essere invisibile. Riesco a parlare, a sentire l’eco dei discorsi con la mia solitudine, che mi trascina via, verso un baratro in cui è impossibile non cadere.
Non so se basta. Anzi, lo so. Mi sdraio nella vasca. Apro l’acqua e ascolto il suo scrosciare incessante, mentre il corpo si scalda, si rilassa e trova pace. Messo e non concesso che io conosca il significato di questa parola. Mi basta un bagno per schiarirmi le idee.
È una schifosissima, gelida giornata di Novembre. Nessuno vorrebbe essere lì fuori. Io, al caldo del mio bagno, preferirei. Preferirei qualsiasi cosa, se servisse a non essere me stessa. È da un po’ che vorrei solo svegliarmi ed essere un’altra persona. Forse quella che non sono mai stata capace di essere. Forse Rita. Forse quella stupida secchiona dalla vita vuota e insulsa. Fai la brava, fai i compiti, vai a dormire, ti svegli e di nuovo così. Routine, dovere.
Preferirei essere quella scialba ape che continua a picchiettare contro la finestra chiusa senza riuscire ad entrare.
L’acqua sale, insieme ai miei pensieri, che volano come bolle di sapone, coriandoli neri.
Chissà chi ci va all’Inferno. Chissà com’è. Incandescente come lava o gelido come l’indifferenza?!
Lacrime a catene indissolubili. Si cacciano via a forza l’un l’altra, come sale negli occhi. Scrosci di acqua e sale. Il mio convulso piangere si cela nella vasca. In una casa dove nessuno può guardare. Nessuno adesso mi può vedere. La casa è vuota e piango. Come fosse una melodia. Le stupide note della mia sgraziata vita. Spero, spero solo prima dell’ Inferno di trovare la pietà, per un’infelice come me. La nenia della mia triste esistenza si ripete senza fine.
Mi viene da urlare, non ha senso ma strapperei il mondo a lamenti, se ciò servisse a portar via almeno quella manciata di minuti che ha concretizzato la follia.
Tre settimane fa è cambiato tutto, per uno stupido errore, che Rita non sa. Perché io non ascolto mai.
Vasca piena. È caldo. Il calore, i vapori potrebbero farmi svenire, ma non sarà così.
Giacomo. Era circa un anno che questo nome occupava la stragrande maggioranza dei miei pensieri. Era più forte di me. Qualcosa di così magnetico da calamitarmi a sé senza pietà, né risparmio. Anche una semplice attrazione è capace di assorbirti da dentro. Ma questo Rita non lo sa.
Ha diciannove anni. Pluribocciato. Da farci l’abbonamento a vita. Chissà cos’avrei dato in quell’anno intero per arrivare ai suoi riccioli neri, a quella bocca, che poteva togliermi il respiro con un sussurro.
Tre settimane fa, in gita, abbiamo cominciato tutti giocando. Uno di quegli stupidi giochi in cui si dicono scioglilingua sempre più velocemente, chi sbaglia beve. Ancora e ancora, fin quando non gira vorticosamente il mondo e i pensieri sono più diluiti delle schifezze che ad ogni sorso butti giù.
Mi sento male solo a pensare al modo in cui ho trattato la mia amica, quando si è rifiutata di partecipare ed è andata nella sua stanza, da sola, a guardare la tv “Si, vai a pettinare le bambole già che ci sei”. Ora vorrei solo essere andata a pettinarle con lei.
L’acqua sale. Io coperta. Suona nelle orecchie l’eco del suo rumore. Rumore ovattato, materno. Eppure la calma non è affar mio. Tuonano i sussulti che ho in corpo. L’angoscia mi trema in gola, nella testa, nelle gambe. Nelle mani, nei polsi, pulsanti per i battiti accelerati del cuore. Cuore che corre, esasperato dalle mille emozioni di una vita intera bruciate in un solo insaziabile attimo di tormento.
I minuti più nitidi del mio intero esistere; passaggi di bottiglie, bicchierini, sorsi amari, dolci, salati. Sale di lacrime.
Poi tutto è confuso, il colpo arriva sempre all’improvviso. L’ultimo ricordo, il suo viso.
Il cervello risucchiato da un buco nero di veleno. Vuoto.
Io che resto in stanza con lui e forse non siamo soli. Molti se ne vanno. Il mio corpo che avvampa, incendia sotto il suo calore senza fine, forse siamo soli, forse.
Una mattina di mal di testa e confusione, mista al terrore, al fingere felicità. Raccontare bugie alla migliore amica, dicendo che è scappato solo qualche bacio e la promessa di sentirsi presto, mai esistita.
Bollente. Non è un semplice bagno caldo. Voglia di espiare, non sopportare più il peso del proprio peccato. Aspetto quasi che si stacchi la pelle. Sarei felice. Invece tocca a me. Spetta a me il compito di guarire dal mio male.
Era già pronta da ieri. In un bagno abbandonata così sembra un semplice elemento di arredamento. Nessuno ci penserebbe mai. Una stupida lametta.
Mi muovo nell’acqua e finalmente rido in questo assurdo delirio di follia. Eppure non è facile.
Ci pensi un attimo, che il mondo stai per non vederlo più.
Un piccolo gesto spesso ci separa dal nostro destino, ma quando altri precedenti segnano già la tua strada è inutile sottrarsi. Scappare e perdersi in fughe senza fine che non portano a nulla.
Non so cosa aspetto. Questa serata è concepita apposta perché nulla mi possa salvare. Nemmeno l’intromettersi di Cecilia. È da un’amica. Questa serata è per me.
Pensi. In questi casi vorresti quasi farti un discorso importante, perché morire a cavolo sembra un po’ una scemenza. Morire così sembra uno scherzo. Vuoi pensare qualcosa prima d’inaugurare la seconda vita, qualcosa che lasci il segno…. Ma in fondo, più segno di così…
Intorno è tutto ovattato e materno. Echi di pace non troppo lontana, eppure non ancora tangibile.
Braccio sinistro. Un po’ rosso. Il destro trema di più. Cerco di non piangere, di smettere, ma è più forte di me. L’angoscia t’intrappola. È un fenomeno vedere qualcuno che muore lasciandosi alle spalle qualche discorso sensato.
Quelle piccole vene verdi. Non voglio pensarci più. Né immaginare il dolore che seguirà.
Penso al cartone. È come ritagliare figure con un cutter. Sii precisa e fa meno male.
Invece no. Le stacco di netto. Ferita profondissima. Meno uno. Urlo. Un grido triste e soffocato. Nessuno mi deve sentire.
Di là è più difficile, la forza viene meno quando il braccio perde energie. Sono già a metà dell’opera. Tremo, sussulto, piango. Non posso non essere più sicura.
Ancora più netta. Metallo freddo, che stronca il caldo e dolce pulsare di una vita che non tornerà.
Sangue che sgorga. Cuore che pompa all’impazzata, per compensare il nulla. Spietata la morte, urla strazianti di sofferenza insopportabile, che non può più nascondersi, ora di smetterla a giocare a nascondino. Pianto più veloce del rosso che tinge la vasca.
Il rosso di una rosa sporca.
Contamino l’acqua intorno.
È vero. Ieri sera ho aspettato per ore una risposta di Giacomo. E' arrivata.
Quello che Rita non sa, è che gli scritto che sono incinta, neanche certa che il padre fosse lui. Il buio mi ha dilaniata in una frase “Fanne quello che ti pare, a me non interessa”.
Ce ne andiamo sottovoce, senza disturbare un mondo sordo. Mia madre con i suoi impegni, i miei prof per cui conta solo lo studio, la secchiona. Rita, forse l’unica che avrebbe capito.
In fondo mi sarebbe piaciuto un esserino con i suoi occhi e il suo sorriso. Ma non così, non così sola.
Avrei voluto dirlo a mia madre, beh, avrebbe detto subito di eliminare il disturbo e non se ne parla più. Insabbiare un bimbo come se non fosse mai esistito. Buttar cenere sopra un errore. Poco sarebbe importata la mia volontà, la mia libertà di decidere, pari a zero. La vita che ti chiude portoni in faccia. Non si accorgerà di stasera. Quando i miei sono altrove non notano niente al volo. Ci vorrà un po’, specie per capire che qualcuno nella morte mi ha fatto compagnia.
Mentre il mio corpo si prosciuga, mi chiedo come sarebbe stato. Magari di tanta gente insulsa che viene ogni giorno al mondo, sopprimo proprio la vita di quello che avrebbe fatto la differenza. L’unico capace di rendere questo schifo di mondo un posto migliore. Una piccola anima che si sforza per il bene. Mi consola solo che sarebbe potuto semplicemente diventare un altro piccolo bastardo, come suo padre, capace solo di far del male alle persone che lo circondano. Cerco di convincermi che è stata meglio così. Mentre sento l’anima scivolare via, chissà verso quale altro atroce Inferno.






Questa se ho un po’ di fortuna è l’ultima. Non è bello fare le consegne quando il cielo butta giù acqua così.  Piove da schifo e se vogliamo dirla tutta ho pure fame.
Beati loro, bella villetta. Sicuro non gli mancano i soldi.
“Marchesi” è il cognome. Il portone di casa è aperto, come tra l’altro il cancello. Entro?!
Facciamo l’educato <<Mi scusi! La pizza! Può venire qualcuno per favore?>> Ma è normale la gente?! La porta di una villa aperta… mi sto bagnando sotto il diluvio. Se è uno scherzo stavolta li uccido. Cavolo per fare gli imbecilli almeno scegliete una giornata in cui non si gela così!
Entro, al massimo mi arrestano. Bella casa.
C’è qualcosa che non va. Una puzza schifosa che non so descrivere. Seguo la scia per capirne il senso, comincio ad avere paura.
Una pizza che cade. Urlo e corro via con tutta la forza che ho in corpo, non basta per scappare.
Quasi aggredisco un tizio sulla sessantina. Gli salto addosso urlando, lo tiro per la manica del giubbotto e finalmente trovo le parole per dire a qualcuno “C’è una ragazza morta in quella casa, nella vasca piena di sangue”.

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