Translate

giovedì 19 novembre 2020

L' attanagliante senso di vuoto di "Lost in Translation"


E niente, quando si ha da passare il tempo in zona arancione, escono fuori le idee più malsane: "Fede, perché non recuperi in maniera totalmente random un film del 2003?!" Quindi eccoci qui. Eh già... ok, la smetto per non entrare in ambito musicale. Pochi la capiranno, ma vi assicuro che sarebbe più grave capirla.
Insomma la trama spicciola è che Bill Murray e Scarlett Johansson prima che diventasse vedova, s'incontrano in un albergo di Tokyo e da qui la trama si fa inenarrabile. No, sto scherzando. 
Premessa di fondo: sono entrambi sposati e scontenti delle loro vite affettive. Questo tuttavia lo immaginavate, altrimenti non cominciava il film. Entrambi secondo me non sanno cosa stiano cercando in generale, ma questo è un mio modesto parere. 
Quello che salta all'occhio in maniera immediata nella pellicola, è che il contratto di Scarlett (qui Charlotte, suona anche simile) era molto simile a quello che fecero a Jacob il licantropo per stare nudo durante tutto il film. Anzi, direi in maniera inversa, perché lei, invece di esporre i pettorali, è perennemente in mutande, anche se sopra indossa il maglione (il che non ci trasmette certamente informazioni chiare, riguardo il clima dell'hotel). A un certo punto mi sono chiesta se non ci fosse sotto una pubblicità di slip subliminale. Ad ogni modo, la giovane vedova ci fa la grazia di vestirsi le volte che incontra il povero Bill (qui chiamato Bob...ma davvero?), anche perché è sposato, un po' di decoro, diamine.
Confesso che, nonostante una certa caricaturizzazione dei giapponesi e quanto detto sopra, "Lost in Translation" mi è piaciuto un bel po'. Non sto scherzando.
Innanzitutto, il Giappone è una cornice immensa. Cosa ci si può inventare per far sentire smarriti degli americani, abituati già a vivere in mezzo al caos e a un'esistenza passata a ignorare gli altri, perché paradossalmente si è in troppi, dappertutto? Un luogo altrettanto imponente, luminoso solo artificialmente, perché il sole compare veramente poco ed è smorzato da una fotografia fredda. Un luogo in cui sei ben trattato ma perennemente ospite, in cui ti sbracci troppo, fai troppo rumore. Un posto dove tutto è troppo vistoso ma anche vissuto sottovoce, dalle contraddizioni laceranti. 
Complice l'uso spettacolare dei colori spietati, gelidi, clamorosamente crudeli, il Giappone, con la formalità dei suoi abitanti su cui implicitamente viene un po' puntato il dito, sembra un abbraccio incompleto o in cui c'è qualcosa che non torna. Una nota sbagliata al pianoforte.
La perfezione di Tokyo, così immensa e piena di vite sommesse, gioca molto bene la sua parte. Dal punto di vista visivo, è un film da gustare, con scene come opere d'arte. Charlotte rannicchiata alla finestra, con lo skyline alle spalle, sembra quasi un dipinto. Così accade in parecchi frame, curati in maniera maniacale. Anche i giochi di luce sono ben dosati: ci sono passaggi più luminosi in cui i due protagonisti non sono insieme, ma quando si vedono è quasi sempre presente l'oscurità. C'è una pesantezza di fondo in quegli ambienti, qualcosa che sporca la limpidezza, dà un senso di torbido, come a far intendere che certi momenti non ci dovrebbero essere.
Ciò che mi ha colpita maggiormente, è il senso di vuoto raggelante che impregna la pellicola. Per tutto il tempo finisci a fare i conti con una solitudine a dir poco letale, logorante. Charlotte viene letteralmente abbandonata a se stessa da un marito che, seppur buono, è costantemente concentrato nel lavoro; Bob sembra intrappolato in conversazioni telefoniche sterili con la famiglia, senza una via d'uscita. La particolarità sta proprio nel fatto che, la tematica principale è assordante, eppure nel contempo trattata con una delicatezza impensabile. 
In questo film si fanno delle scelte molto azzardate a livello di svolgimento della storia. Era paradossalmente semplice fare qualche scivolone, invece mi ritrovo a confermare che si tratta di un film davvero bello, da vedere.

martedì 17 novembre 2020

Viaggiare

L' autunno ha una malinconia dolce e l'aria diventa quasi una nostalgica carezza, quando si è in viaggio. 
Oggi mi sono tornate in mente tutte le volte in cui ho fatto lunghe "traversate"in auto. Non avrei mai potuto immaginare, che mi sarebbero mancate al punto da comprimere lo stomaco. 
Vero, a casa io non ho mai saputo starci e mia madre finalmente mi ha vista in camera durante il lockdown e abbiamo fatto amicizia. Il che non guasta.
Eppure il mondo fuori giunge sempre come un triste lamento, un richiamo imperdibile. 
Quanto è triste e doloroso, per gli spiriti avventurosi, avere confini. 
Si affollano nella mente tutte le sensazioni di essere in un luogo che non conosci, smarrito ma felice. Il tempo talvolta favorevole e talvolta ostile; quella leggera sensazione di freddo che non è nemmeno sempre dovuta alla temperatura:
E se dovessi perdermi? 
In fondo siamo tutti un po' persi. 
L' autunno è la stagione più bella per essere fuori di casa, senza sapere dove andare. Respirare l'odore delle foglie, che si lasciano cadere, promettendo un giorno di rinascere da qualche altra parte. 
Come questo autunno dell'umanità, ci auguro di rinascere. 
Smarriti e persi come le foglie, spero migliori.

lunedì 16 novembre 2020

10 buoni motivi per cominciare "Supernatural", nonostante siano già uscite 15 stagioni

Diciamo la verità: un po' è la mancanza di tempo; un po' tanta è la pigrizia che subentra dal momento in cui c'è da cominciare una "nuova" serie. Specialmente se l'hanno finita tutti sulla faccia della Terra tranne te e non mancano nemmeno di fartelo notare.
È estremamente più semplice affrontare una montagna a cui ogni tanto aggiungono terra (serie tv appena uscita che non sappiamo quante stagioni durerà), che guardare attoniti una vetta veramente alta e non sapere da che parte cominciare. 
Principalmente anche per questo ho continuamente posticipato la visione di una serie tv, che invece è diventata quasi un'ossessione. 
La risposta era solo: "Parti dalla prima puntata".
Nel caso siate indecisi, eccovi 10 motivi per cui non dovreste rinunciare a "Supernatural":

1. Dean è figo
2. Dean è veramente figo
3. Dean, non è solo figo, ma anche simpatico.

No dai, non chiudete la pagina. Scherzavo (forse).
Ecco le reali motivazioni che mi tengono incollata allo schermo. Se poi ne avete delle altre, v'invito a lasciarmele nei commenti (evitando gli spoiler).

1. Il carisma dei protagonisti
I personaggi principali hanno un carattere accattivante e coinvolgente. Ci vengono presentati due fratelli, Sam e Dean, fortemente legati da un rapporto intenso e inscindibile, complici le loro disgrazie di famiglia. Hanno due personalità nettamente diverse che creano un'alchimia divertente e mai monotona. Per non parlare dei siparietti comici che nascono talvolta veramente dal nulla.

2. Il filone narrativo
La storia madre che fa da filo conduttore alle puntate è intricata, complessa, strana. Passo dopo passo ci avviciniamo a verità scomode, a colpi di scena imprevedibili che ci tengono incollati allo schermo... il che, non fa mai male.

3. L'introspezione
Nulla è lasciato a caso. Vicende e personaggi vengono approfonditi in maniera millimetrica ed è una serie molto attenta alle dinamiche relazionali. C'è sempre un motivo ben preciso che muove una determinata azione in una determinata circostanza.

3. La musica
Vi è mai capitato di macinare puntate e puntate in cui vi automaledite per le canzoni che vi danno in pasto?! Su "Supernatural" non avrete questo problema, perché anche quelle v'incanteranno. 

4. È una serie horror
Ovviamente si tratta di cacciare i demoni, quasi tutti gli episodi hanno uno stampo oscuro, che talvolta ha risvolti anche splatter e non solo.

5. È una serie divertente
Questo è un fattore importante, che rende "Supernatural" molto completa e poliedrica: presenta al suo interno i famigerati siparietti comici di cui vi parlavo prima, nonché delle vere e proprie scene da meme, con cui vi rotolerete per terra dal ridere in maniera inaspettata. Diventa davvero impossibile annoiarsi.

6. È una serie drammatica
L'elemento horror non è lasciato al puro e semplice caso. Molto di ciò che succede, crea pathos, un pathos che si autoalimenta, fino a generare un crescendo di situazioni disperate.
La stessa storia ha una sua anima, un carattere complesso che si snoda attraverso dinamiche dolorose, ma a dir poco spettacolari. È come se ciascuno dei personaggi dovesse morire giorno per giorno, semplicemente al fine di riuscire a sopravvivere.

7. Ti fai una cultura sulle creature sovrannaturali
Vi permette di fare un continuo ripasso su tutte le creature paranormali tipiche e non, imparandone anche di nuove. Potrebbe sempre tornarvi utile sapere cosa fare, se doveste trovare sacchettini strani per casa. Oppure, male che vada, riuscirete a capire se il fantasma che infesta la vostra nuova abitazione dei sogni, vi sta dando il benvenuto o lo sfratto. 

8. Ci sono puntate particolari, che fanno da tributo ad altri film
Come se non bastasse la completezza nel suo essere multi-genere, presenta anche episodi più particolari, di nicchia, capaci di ricalcare e rendere onore a capolavori del cinema e della letteratura.
Sono come piccole opere d'arte da incorniciare.

9. Ha un ritmo veloce
È tutto fuorché una serie lenta, la cadenza delle rivelazioni e dei colpi di scena è serrata e rapida. Non presenta lunghi momenti morti in cui ti chiedi cosa diamine stai guardando o cosa stiano aspettando i protagonisti prima di fare qualcosa.

10. Crea dipendenza
Non riuscirai a smettere. Basterà cominciare e vorrai solo avere più tempo per divorare tutte le stagioni. "Supernatural" è una serie tv da cui non si torna indietro. Una volta ceduto al suo fascino, è un punto di non ritorno: verrete inghiottiti e va benissimo così.

domenica 8 novembre 2020

Covid-19. Una pagina sporca nei libri di storia

A volte penso a come sarebbe potuta andare una normalissima giornata e mi risale un'amarezza dalla bocca dello stomaco. Mi viene un magone incontenibile a pensare a come eravamo, a quello che abbiamo perso e a quanto ci vorremo a recuperarlo.

In una delle tante giornate, che sembravano anche tutte uguali, probabilmente mi sarei svegliata, avrei lavorato, trangugiato i pasti con l'imbuto e poi sarei andata al cinema. 

I nuovi film da recensire attendono, non ci si può fermare.

Nessuno avrebbe mai potuto pensare, nemmeno nelle peggiori pellicole da apocalisse zombie, che si sarebbe irrimediabilmente fermato tutto così. Più volte. Che non avremmo più potuto presentarci con una stretta di mano, abbracciare gli amici in un momento di sconforto, andare a cena tutti insieme per festeggiare un evento speciale, senza invitare quella maledetta paura, che ci segue ovunque. 

Adesso sono occasioni proibite.

Nessuno avrebbe mai potuto prevedere l'ansia antecedente i risultati di un tampone e che sarebbe diventata quasi una routine.

Ci sono giorni in cui mi chiedo come faccia una madre a spiegare a un figlio, che con i compagni può giocare se va bene a metri di distanza, respirando la sua stessa anidride carbonica in una mascherina. Come si fa a dirgli di non scambiarsi le matite o i giochi, come noi invece abbiamo fatto da piccoli un miliardo di volte. Penso a quante volte con noi i genitori hanno scrollato le spalle: "Si farà gli anticorpi" e a quanto sia complicato adesso, far capire che c'è da disinfettarsi le mani di continuo, fino a quasi ferirle. 

Quanto coraggio ci vuole a spiegare ai bambini che il mondo è così, quanto coraggio c'è stato nelle epoche passate.

Eppure siamo ancora vivi. Ammaccati, feriti, dilaniati dall'incertezza di giornate precarie, che non passano mai. Ma vivi.

Forse è proprio questo il segreto per andare avanti in questa nebbia. Pensare che siamo ancora al mondo e tutto questo, una mattina ci sveglieremo e sarà passato. 

Una brutta pagina sporca nei libri di storia.