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venerdì 6 maggio 2016

Recensione: Il catino di zinco, di Margaret Mazzantini

Voto: ****1/2
Dal tratto spietato, deforme, inclemente e pure capace a modo suo, di perdono, Margaret ci sputa in faccia la morte. E ce la riversa addosso con quell'audace e sfacciata cattiveria di cui solo lei e pochi altri, sono capaci. 
Siamo sulla bara della nonna. Così vecchia, così morta, così indifesa eppure si porta dietro in maniera strana quell'odore della vita che è stata.
Margaret è la nipote di Antenora; la scruta con un occhio indagatore, a cui non sfugge alcun dettaglio -anzi possiede anche troppa memoria e sarebbe meglio che riuscisse a dimenticare qualcosa- e la racconta.
Su questa via prende forma un viaggio nel tempo, nella memoria. Corpi, voci, dolori che si rincorrono concatenati tra un'esistenza e l'altra. Delusioni di ciascuno, di tutti, di nessuno.
La protagonista sulla bara della nonna percorre il passato della defunta. Lungo quanto un libro, ma in un battito di ciglia. 
Narra del suo trisavolo che ha perso la figlia preferita, della bisnonna dalla sorella pazza... narra di suo padre Vittorio che rimpiange il coniglietto che ha tanto amato e la madre gli ha ucciso. Racconta del nonno, così tanto legato al mare negatogli a lungo dalla moglie. "Il catino di zinco" è un girotondo immenso di affetto, di rancore e perdono. Perdono tuttavia dal sapore acre, costato troppo. In questa famiglia le persone si perdonano ma c'è sempre l'amaro in bocca. C'è sempre il torto che torna alla memoria nonostante sembri "passato". Credo sia ciò che mi ha colpita di più, questo ritorno incontrastato del dolore. Sembra quasi che vinca sul bene... o forse la morale è proprio che nonostante le ferite, in una famiglia vera ci si ama ancora e ci si prende cura di un parente anche se ha ucciso il coniglio di tuo padre e ancora non ti va giù, anche se l'odio rimane sotteso e latente tra le pieghe di un'anima inquieta e nel contempo agitata.

Fa freddo. È buio. Ma lei non mi chiede di rientrare. Le basta star lì all'addiaccio insieme a me. Potrei tenercela tutta la notte. È mia. Mi cerca con quello che di vivo le è rimasto in corpo. Ora potrei fargliele pagare tutte, e finirla come il coniglio di mio padre, stringendole intorno al collo la cinghia della mia borsetta. Vederla andare paonazza e gridare: «Perché? Perché glielo hai ammazzato, porca?!». O, anche, scannarla al ritmo di una macabra filastrocca: «Porcaccioncella, non si castrano i maschietti, non si ammazzano i coniglietti ai bambini soli soletti...». E la mollerei cadavere in quel prato, con i gattacci a gnaularle intorno. Ma che senso avrebbe, ormai...
L'onesta brutalità è quasi liberatoria. Può sembrare un discorso orribile e forse lo è, ma l'autrice sdogana una quintalata d'ipocrisia gratuita e vi serve il reale su un piatto d'argento... e non chiede il permesso.
È un libro fastidioso... tanto. Tutto ciò che è vero è fastidioso; perché il lettore medio si aspetterebbe di trovare una nipote premurosa, che racconta alla Teletubbies una storia rosa e fiori. Non si è abituati alla sfacciataggine di una che spiattella il suo rancore per una nonna ormai vecchia e stanca. Proprio perché è vecchia e stanca se ne prende cura, ma non sa arrivare a dimenticare i torti che ha inflitto ai suoi cari. Non riesce a fare il solito discorsetto ipocrita e buonista che si affaccia ogni qualvolta muore qualcuno. Quegli sprecatissimi: "Era brava e buona". No... quelle cazzate le spazza via il vento. La mancanza di senso di colpa rende tutto meno scivoloso e più sgradevole. Sgradevole in quanto difficile da assimilare ed accettare. Proprio per quello si tratta di qualcosa di autentico.
Una narrazione ruvida, in cui Margaret non cela difetti né pregi del proprio albero genealogico. Antenora si configura allora come un tassello di un puzzle immenso, molto più grande. Un disegno di cui solo guardandolo dall'alto si può comprendere la completezza.

Scendo dal letto e mi ritrovo in giardino. Cammino sui campi, lì dove il sole tramontava quando ero bambina. Grazie nonnaccia dell'invito a questo sgangherato walzer di famiglia nel quale volteggia tutto il parentame: ogni giro un nuovo viso. Il mio carnet è pieno zeppo! Dimmi, a chi devo concedere l'onore del primo ballo? Perché proprio io... Cosa ti fa pensare che io somigli a tutti voi? Se il sangue fosse davvero così affollato d'anticaglie, non potrebbe nemmeno scorrere nelle vostre vene.

La sua storia abbraccia altre storie. Come quella di suo padre Vittorio, pecora nera della famiglia perché più delicato, sensibile rispetto agli altri figli. Narra di quando dopo la morte del fratellino che gli era vicino, per tifo, si era affezionato a un coniglietto e di come questo animaletto è stato ucciso e cucinato brutalmente. Vittorio mi colpisce, perché è diverso. Sembra essere l'unico a slegarsi dal meccanismo rancore/affetto in cui sembrano cadere i componenti di tale famiglia.
Il suo dolore è un motore più grande, lo spinge proprio al distacco. Inconsciamente pone un lastrone di marmo tra lui e questa madre che l'ha sempre poco capito, così poco da ferirlo a sangue e quella ferita pulserà a vita. Di Vittorio la figlia non racconta, quando Antenora si ammala. Resta il grosso dubbio ... un interrogativo: lui ha delegato a sua figlia il ruolo di starle vicina oppure è riuscito almeno un po', a spostare il lastrone e provare affetto senza veleno?
La risposta purtroppo non ci è data. Non abbiamo le risposte, perché questa narrazione apre la testa a infiniti  quesiti, ma non offre le soluzioni.
La lezione più grande che ho imparato è perdonarsi. Perdonarsi anche se si prova rancore e anche se si finisce a provare addirittura odio per i propri cari... perché vite ed anime diverse s'intrecciano in modi inaspettati ed è normale non esserne sempre felici. È normale che se ci si sente feriti si fa del proprio meglio, ma sarà un affetto più tiepido. Insegna ad accettare certi limiti dei rapporti familiari e a superarli, seppur conservando dentro le emozioni negative. Il rancore per i torti subiti è normale; l'importante è sforzarsi di restare umani il più possibile e non lasciarsi completamente uccidere dalle emozioni negative.

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